“Ci sono cieli dappertutto: arrendetevi!” (Che cosa è una stanza: appunti presi venti minuti prima della sua apertura, e foto)

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Beppe Sebaste inaugura la mostra (e la Stanza) scrivendo il titolo sul muro: CI SONO CIELI DAPPERTUTTO. ARRENDETEVI!

 

Stanze. Ci sono cieli dappertutto (appunti scritti il 18 nov. alle ore 17,25, poco prima dell’inagurazione)

   Perché “stanza”, in effetti?

Credevo fosse una mia personale fissazione. Mi ha invece felicemente stupito che tutti coloro che ho invitato hanno sentito naturale, se non necessario, dedicarsi a questo tema.

La stanza è l’unità di misura dell’abitare – giocare, lavorare, avere cura, pregare, sognare. La stanza è lo studio dell’artista, la camera dei giochi, la sala da pranzo, il luogo in cui appartarsi, ma è anche il luogo della relazione, dell’incontro con l’altro, il posto in cui si sogna a occhi aperti, lo spazio del silenzio, quello in cui si contempla – si crea cioè il proprio tempio (tutto questo c’è abitualmente nei lavori di Andrea Aquilanti, e anche in questo realizzato per la Stanza, Sorgente).

Bambini contemplano la Stanza al cui centro zampilla il fiume Ganga (opera di Andrea Aquilanti)

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È il luogo viscerale della nascita, dell’amore che mima il ritorno al luogo da cui siamo scaturiti (La stanza morbida e quasi corporale di Laura Palmieri, il Nascondino, o prima stanza della vita, di Mariana Ferratto). È il luogo mistico o analitico della rinascita, quello della nostalgia, della perdita, o viceversa del ritrovamento, del ritorno – sapendo che la casa in cui si torna non può mai essere la stessa che si è lasciata alle spalle (Paola Gandolfi).

Da tempo credo molto seriamente che “Punto Linea Superficie”, come titolava il famoso libro di Kandinski, sia la rappresentazione più esatta della realtà. Diceva Gilles Deleuze: “Fare la linea, non il punto”. E se la linea è un punto che è andato a fare una passeggiata, “una stanza è un luogo in cui qualcuno entra per cercare una via d’uscita”: da questa premessa prende forma il lavoro leggiadro di Elly Nagaoka. Perché è vero che l’arte è anche evasione, e l’evasione, insegnava Lévinas, nasce da un bisogno di eccedenza: eccedere ciò che ci trattiene, che fissa la nostra identità, tutto ciò che sentiamo come prigione da cui occorre uscire.

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Elly Nagaoka

Stanza è infatti anche luogo della radura (la Lichtung dei filosofi), la fonte (come mostra il lavoro di Aquilanti alludendo agli zampilli di Madre Ganga) oppure il contenitore ultimo, il bidone di Finale di partita di Samuel Beckett, quello ambiguo coperto da un satiro di Gianni Dessì.

È il luogo da cui scaturisce l’altro e l’impensato, il gioco dell’andare oltre, più oltre dell’oltre (v. Marco Tirelli) – che è poi forse, come Cézanne che contemplava come uno yogi la Montagne Sainte-Victoire – un vedere e contemplare le proprie stesse pupille. Io intendo questo modo di vedere – che è poi l’arte – come un rovesciamento di prospettiva (di senso) del concetto stesso di prospettiva (e di senso): non punto e linea di partenza, cioè di conquista, conferma e irradiamento di se stessi, del proprio ego o identità, con spirito più o meno di “crociata”; ma linea e punto d’arrivo, qui, luogo di attesa e di accoglienza dell’altro (o dell’Altro), alieno, cioè diverso, che viene dall’ignoto (v. ancora Marco Tirelli).

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“Senza titolo” – Marco Tirelli

La deriva del gioco del desiderio, il de-siderare come sentimento della mancanza (essere senza stanza, essere fuori rotta, fuori dalle stelle, extra sidera, fuori asse, out of joint o fuori luogo, extracomunitari o clandestini, amlet-homeless, essere cioè incapaci di vedere le stelle, che è la vera origine della parola de-siderare, ed è il titolo del lavoro di Daniele De Lonti, che va all’origine dell’origine della stanza: l’umana condanna a voler misurare lo spazio, e addirittura l’infinito, in una successione di stanze. Parabola dell’artista, cioè dell’uomo, che anche se sa che non tornerà mai a Itaca, né tantomeno a Troia, la città distrutta, e impavido va avanti, si mette ad abitare una stanza con lo stesso spirito con cui la ginestra spande il proprio profumo tra i deserti di lava del Vesuvio. Fonda cioè un tempio, e trova rifugio ai piedi dell’immagine del Divino, che è già il Divino. Regge la casa e il mondo come la sua colonna quotidiana, tiene un vulcano acceso nella stanza accanto, ha un lupo sul pianoforte e costruisce città fatte a mano a tavolino (Stefano Di Stasio). Poiché questo ci chiedono l’arte e la letteratura: provare ancora un po’ a “sospendere l’incredulità”, a avere fede, cioè coraggio.

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“La colonna quotidiana” – Stefano Di Styasio

Le foto di Federico Pacini le ho viste in un libro dedicato all’antico palazzo di Santa Maria della Scala a Siena, che ho ricevuto nello stesso periodo in cui i muratori ripristinavano la forma originaria di questa stanza. Sono rimasto folgorato dalla coincidenza. La decostruzione delle stanze che Pacini descrive e trascrive nelle sue foto con zelo di testimone e archivista è molto simile ai lavori di decostruzione di questo spazio che, abbattendo muro dopo muro e facendo respirare arcate e lesene, ha rivelato luce, spazio e volume, cioè tutto questo. Pacini mi conosceva come amico del grande fotografo Luigi Ghirri (morto precocemente nel 1992), l’autore qui di “Casa Benati” posta all’ingresso. Quell’immagine mi riporta a quando i fotografi insegnarono a noi scrittori a uscire dai nostri armadi (out of our closets, cantava Lou Reed) e andare là fuori, sul terreno. Insieme abbiamo percorso ormai tanti anni fa la via Emilia per guardarla e raccontarla. Ed è lì, tra Reggio e Modena, che c’è ancora la casa della famiglia Benati, oggi come allora abitata da Daniele, il figlio scrittore, che in questa stanza abitava col nonno e ora abita da solo, e alla fotografia di Ghirri ha dedicato una bellissima e comica ballata. L’altra stanza emiliana che si vede qui è quella dove dormiva il pittore Giorgio Morandi.

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“Casa Benati” -Luigi Ghirri

Luigi Ghirri insegnò a tutti a vedere e a guardare (non è la stessa cosa), a non disprezzare nessun luogo abitato che è sempre un luogo sacro. Come artista nacque nell’ambiente dell’arte concettuale, fotografò mappe e carte geografiche, e insieme lo sguardo e lo smarrimento della gente, l’incapacità a vedere il mondo, lo sparire stesso di ciò che una volta si chiamava paesaggio. Daniele De Lonti, che ne è stato per anni assistente fedele, ha fotografato di recente il cielo stellato visto dal Planetario di Milano. Cosa si vede? Quello che resta: quell’umana coazione a misurare l’infinito, a dividerlo in “stanze”, appunto, ritagliare il cielo stellato e fare gli orli al firmamento, come il sarto che traccia confini alle stoffe prima di tagliare le maniche. Ci sono stelle, e stanze, dappertutto.

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“De-siderare” – Daniele De Lonti

Su quale pianeta si trova, e a quale conduce, l’apertura della stanza colma di luce e di shining del quadro di Marco Tirelli?

Gianni Leone, che con Ghirri avviò il lavoro pionieristico chiamato Viaggio in Italia, è stato il primo a fotografare questa Stanza. Il suo è un quadro molto intimo, dedicato a me e ad amici comuni che traspaiono nella “Stanza con-fusione”: un’utopia del presente, una paradossale nostalgia del “qui e ora”, come se lo sguardo umano ricreasse fatalmente il lutto dell’atto stesso del vedere, del vedersi. Esse est percipi, essere è essere percepiti – una delle condizioni della condizione umana, prigione estetica che coincide con la sua reiterata evasione.

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“Stanza con-fusione” – Gianni Leone

Ed ecco che, quasi senza volere, ho elencato le modalità con cui gli artisti autori di questa bellissima collana di opere hanno offerto la loro idea di stanza.

Manca un solo nome, colei di cui avremmo festeggiato oggi, 18 novembre, il compleanno: Cathy Josefowitz.

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“Pazienza nell’azzurro”, scriveva Paul Valéry. “L’aria è una radice”, diceva Jean Arp. Erano queste le Stanze che mostrava Cathy, che quando dipingeva galleggiava nella luce, e alzava le mani giunte al cielo. Fino alla sua passione quasi magica per l’angolo retto, per il punto di congiunzione così misterioso, impudico e sfuggente, un amplesso geometrico in cui una parete si connette con un’altra parete fino a combaciare, e far nascere… che cosa? un angelo, pardon un angolo. Un angelo retto, un angolo custode. Che cos’è un angolo, un angolo concavo, che è già una specie di grembo? La risposta è: una Stanza.

Una stanza è una società di angoli – una casa, una città sono una società di stanze. Lo sapeva bene Le Corbusier, autore di Le poème de l’angle droit, Poesia dell’angolo retto.

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Allora, perché la Stanza, una stanza, delle stanze?

Alla fine mi sembra che la cosa più attuale, l’esperienza più contemporanea, venga proprio dal Medioevo. Cioè questo: che a partire da Dante “stanza” non indicava più soltanto lo spazio in cui il poeta elaborava la propria ispirazione o il proprio “fantasma”, fantasia, o il proprio dialogo con l’Assoluto e con l’anima, come già prima di lui il mistico e il monaco; ma “stanza” era diventato il nome della forma stessa della sua opera, la “poesia”. Stanze, stanza, scrittura, poesia.

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Stefania Paperina Maggio dialoga coin Beppe Sebaste col sax contralto. La valigia è la “Valigia sonora” del compositore Arturo Annecchino, per la Stanza.

La stanza è allora il luogo simbolico di un andirivieni tra interno e esterno, tra visionarietà privata e esteriorità pubblica, proprio come lo strano destino e la buffa peripezia, oggi sempre più astratta, che è scrivere e pubblicare testi, fare e mostrare opere, etc. Ammesso che l’entrare in una stanza non sia già da sempre un modo per uscire, la ricerca di un’estasi. Entrare per uscire, uscire per entrare. Estasi: uscire in un’entrata senza fine (ma non è il mercato). Ci vogliono allora nuove competenze, come passare dall’estetica all’estatica.

Ci sono cieli dappertutto. Ci sono stanze dappertutto. Arrendetevi!

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Stefania Paperina Maggio al sax contralto dialoga con Beppe Sebaste sulla Stanza, sullo sfondo di “In the pink” di Cathy Josefowitz

 

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Stefania Paperina Maggio davanti all’opera di Cathy Josefowitz

 

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Maria Grazia Calandrone al reading di sabato 19 ore 12
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Reading di Claudio Damiani, da “Cieli celesti”, per la Stanza