Questa è una recensione ritrovata all’ultimo libro di Marino Magliani intitolato L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (pubblicato nel 2017 da Exòrma, pagine 171). Doveva uscire mesi fa su un noto settimanale, in questa brevità. Avrei voluto scrivere molto di più – per esempio che i moscerini giapponesi del titolo dovrebbero diventare celebri come l’Albatros. Del resto la poesia di Baudelaire e la lunga prosa di Magliani parlano della stessa cosa, l’esilio e il sentimento dell’esilio, cuore della letteratura. Perché ammiro da sempre la scrittura di Marino Magliani. Ed ecco la breve recensione.
Si legge come un romanzo di viaggi e d’avventure, ma quello che avvince non è ovviamente il desiderio di sapere come va a finire (che, diceva Barthes, rende la letteratura simile allo strip-tease) ma la libertà di divagare, navigare. L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi è un libro così libero che potrebbe non finire mai, come la Passeggiata di Robert Walser o una storia di Corto Maltese. Di cosa parlano in effetti sia Walser che Hugo Pratt? Dell’abitare, del vagabondare, del sentirsi a casa oppure sradicati. Come l’ultimo libro di Marino Magliani.
Filo conduttore è quell’inquietudine fatta di “nostalgia”, o mal del ritorno (parola coniata da un medico svizzero nel ‘700) e insieme di “exalgia”, o mal dell’andata (parola inventata anni fa dal sottoscritto). L’esito è lo stesso: confondere l’andata col ritorno. Essere Ulisse che non sa di essere Enea, e viceversa. Ma se ogni vero scrittore è straniero nella propria lingua, come sosteneva Proust, quella forgiata dalla nostalgia e dall’esilio è assolutamente perfetta: “Itaca” è la lingua che non c’è, che si costruisce giorno dopo giorno.
Tutto questo non è solo un’idea di vita, ma di scrittura. Cos’è una storia, cosa è importante raccontare se “l’universale è il locale senza i muri”? Il ligure Magliani vive sul mare in Olanda, a Zeewijk, dove c’è un porto. Quando non scarica pesce dai pescherecci, nella sua casa sulla spiaggia pesca parole traducendo poesie. Dalla vetrata, oltre agli umani e ai gabbiani, contempla quegli uccelletti bianchi con tre dita chiamati piovanelli tridattili, ghiotti di japanse dansmug, i moscerini giapponesi. Della Liguria sogna la lingua perduta e la campagna di rovi e, dall’altra parte, la Corsica che appare e scompare, come “la nave dei sogni che bruciano”. Quando è in Liguria sogna le Canarie, dove pure ha abitato. Suo alter ego è Antonio Tabucchi, avvolto dall’inseparabile saudade anche a Marina di Vecchiano, provincia di Pisa. In lui si specchia, ricambiato. E mentre la narrazione danza come gli sciami di moscerini giapponesi (ciò che tradisce la loro presenza agli occhi dei piovanelli), la sua vita scorre come una coreografia di cui ci affascinano le sequenze in cui sembra che non accada nulla, e ogni cosa, ogni essere, è la perfetta metafora di un altro.