Uno scrittore (fantasma) tra i fantasmi di Pirandello

pirandello macchina da scrivere2(Riporto qui di seguito il mio “reportage” dalla casa romana di Luigi Pirandello, uscita oggi su Venerdì di Repubblica)

Lo scrittore Luigi Pirandello – di cui quest’anno ricorrono i centocinquant’anni dalla nascita – è tra i pochissimi al mondo ad avere legato il proprio nome a una dimensione esistenziale e uno stato di coscienza. Quando non crediamo alla realtà della realtà (ben prima di Matrix e di Philip K. Dick), quando dubitiamo delle identità e ci intratteniamo con i fantasmi, ecco, siamo già in un universo pirandelliano. Sono seduto nell’occhio del ciclone di questo universo, la casa di Luigi Pirandello, oggi museo, a pochi passi da Villa Torlonia. Il fatto che pochi lo conoscano mi permette di ascoltare da solo le voci dietro il silenzio. C’è stato un periodo in cui venivo qui anche tutti i giorni.

Lo-Studio-Pirandello

Sono seduto su una delle poltrone un tempo rosse, ora tappezzate di stoffa grigia, la stessa delle tende, da quando questo studio fu la location del film Caos dei fratelli Taviani, tratto dalle novelle di Pirandello. In origine era un atelier d’artista: uno spazio alto sei metri con cinque grandi finestre e portefinestre affacciate su alberi e giardini, più una minuscola camera con un letto singolo e una terrazza. Niente cucina né zona pranzo. Negli ultimi anni, per mangiare una minestra, lo scrittore scendeva nell’appartamento di figlio e nuora al piano terra.

Dietro di me c’è il tavolo di legno su cui scrisse, in un’altra casa a pochi metri da questa (i traslochi di Pirandello furono piuttosto dei rimbalzi dentro lo stesso isolato) i Sei personaggi in cerca d’autore. Alla mia sinistra c’è l’altra sua “scrivania”, lo sgabello reso famoso dalle fotografie del 1934: quando qui, tra questi stessi mobili, una folla di fotografi ritrasse Luigi Pirandello facendolo posare da scrittore il giorno in cui si diffuse la notizia che fu insignito dal Nobel. Era seduto su questo pouf accanto a me (ecco, mi ci siedo anch’io), stava chinato un po’ artificiosamente sulla sua macchina da scrivere portatile, una Underwood col foglio inserito appoggiata allo sgabello, e con la quale per vendicarsi digitò ripetutamente, sotto lo sguardo cieco dei fotografi, la parola “pagliacciate”, “pagliacciate”, “pagliacciate” (che mi ricorda un po’ la tiritera di Shining).

pirandello macchina da scrivere

Tutto qui suggerisce sobrietà e riserbo. Pirandello non ama, lo sento, la curiosità degli altri, i perditempo dello sguardo turistico. Ama la nudità, che nega e vanifica ogni impertinente frugare dello sguardo e della mente. Stare qui è un invito a spogliarsi di ogni sguardo voyeuristico. Non è forse lui ad avere composto il titolo più bello e consapevole del Novecento per raccogliere e avvolgere i suoi testi teatrali? Maschere nude: un titolo dopo il quale dovrebbe essere impossibile mentire, almeno nel mondo letterario. Invece… Non voler sapere, mi dice. Tanto, non è mai la verità quello che si trova. Meglio sognare.

“Maschere nude”: in questo luogo dove ogni cosa è al suo posto, queste parole risuonano come un lascito giocoso, una mappa, un codice cifrato in cui la verità è nascosta dalla sua evidenza, come la “lettera rubata” del racconto di Edgar Allan Poe, in realtà mai spostata dal suo luogo naturale, il portalettere sullo scrittoio.

C’è però la conversazione, che sento intercorrere ancora tra le poltrone. Sono sicuro che lo scrittore di fantasmi avesse il gusto della conversazione, il giocare a palla con le parole, far rimbalzare il fantasma della verità presunta, essenza del teatro. Mi sembra di udire nel silenzio della stanza l’eco incrociato di innumerevoli scambi. Maschere nude, ancora una volta. Per esempio con Eduardo De Filippo, che veniva spesso a parlare e lavorare con Pirandello.

pirandello scrivania

Adesso sono seduto sulla sedia di Pirandello al suo vero tavolo, e forse non dovrei dirlo pubblicamente. È qui che scrisse Pensaci, Giacomino e Così è se vi pare, e è sempre su questo tavolo, ma in un’altra stanza (al piano rialzato della casa all’angolo, in via De Rossi, alle spalle di questo salone), che scrisse Visita – storia breve in cui appaiono per la prima volta i “personaggi”, sorta di fantasmi a cui l’autore ha consuetudine di dare udienza la domenica mattina – e le novelle sulla guerra. Guardo gli oggetti sulla sua scrivania, li sfioro con le dita: il portacarte in pelle decorata, il fermacarte, il portapenne, i calamai, il portalettere, il portacenere. C’è un calendarietto da tavolo con i numeri dei giorni scritti in rosso e le parole in nero, nessun appunto salvo quello di chissà chi, forse il figlio, che il 9 dicembre (il giorno prima della morte dello scrittore) annota: “Sempre a letto”, con una calligrafia che mi ricorda quella di mio padre. Nel portafotografie accanto c’è la fotografia, naturalmente in bianco e nero, del volto intenso e dolce di Marta Abba.

I libri negli scaffali bassi mi piacerebbe toccarli, seguire le epifanie che mi sembra di scorgere ovunque. Sono i libri che Pirandello aveva ricevuto e probabilmente letto, comunque sia conservato. Vorrei leggerli tutti. Prendo nota di alcuni titoli che mi affascinano: Sul limite dell’ombra di F. Pastonchi, Allucinazioni della città nuova di Riccardo Marchi, I mondi invisibili di G. Kriszat e J. Von Uezkull, Il tragico quotidiano di Giuseppe Papini (Mondadori), etc. Non risuona in ognuno di essi qualcosa di “pirandelliano”?

Il suo ultimo testo teatrale, I Giganti della montagna, lo dettò invece al figlio dal suo letto di febbre nella cameretta, nei giorni prima di morire. Non è più grande di una cella francescana, ma con copriletto, toeletta e sgabello tutti in tinta, rosa cipria. Nel modesto armadio, sotto i pochi abiti appesi ci sono nei cassetti le magliette di sua invenzione – quelle, per comodità, senza le maniche, meta camicia e metà gilet. Ho sostato accanto al suo letto. La prima volta c’era anche lui, Pirandello, sospeso per aria ad aleggiare sul letto, nelle fattezze acconciate con grazia immateriale da Riccardo Caporossi, che per qualche giorno aveva vestito l’inconfondibile ombra dello scrittore con cappello e cappotto.

pirandello

Sono di nuovo nello studio, dove immagino perfettamente Pirandello accogliere la domenica mattina i personaggi, effimeri e petulanti, che pretendono che l’autore parli il più a lungo possibile di loro – e, intanto, con loro. Forse siamo tutti prefigurati in quel racconto, Visita, nel nostro dare e volere attenzione, voler diventare per un attimo testimoni ed eroi – non di celluloide come nella canzone dei Kinks, ma di parole, scritte o recitate su un palcoscenico. Come gli aspiranti personaggi della domenica affollano lo studio dello scrittore, noi visitatori testimoniamo di essere stati qui, quindi di esistere, e avere qualcosa a che fare con l’assenza presente del grande scrittore di fantasmi nel suo studio vuoto, in questo interno che ne conserva l’impronta come di una testa su un cuscino.