Stanze: ci sono cieli dappertutto. (Alcuni pensieri per gli “Stati Generali dell’Autore”, 15/12/2017)

Carl Andre, Man Running, 1961

Alcuni pensieri per gli Stati Generali dell’Autore (VI edizione) organizzate dalla Fuis (Federazione unitaria scrittori italiani) –  sul tema “La voce degli scrittori. Letterature, storie e diritti d’autore del Mediterraneo”, a cui sono impossibilitato oggi venerdì di partecipare fisicamente.

fuis

Stanze: ci sono cieli dappertutto

(alcuni pensieri sugli scrittori oggi in Italia e non solo)

   A volte vorrei ancora parlare di letteratura, battermi per qualche idea, poi mi rendo conto che, distratti e intossicati da un universo editorial-mediatico drogato e sempre più interiorizzato, come se fosse “naturale”, ci si dimentica la cosa essenziale: che scrivere è scrivere testi nuovi, sperimentare stili e enunciazioni diverse (non solo e non tanto degli enunciati), valorizzare il non ancora valorizzato, soprattutto se ci rende perplessi e stupiti, anfdare alla ricerca di luoghi non ancora occupati dal senso, allargare l’area della letteratura parallelamente a quella della coscienza. E non confezionare e vendere “libri” che si assomiglino tutti, o di cui, con una specie di sondaggio preventivo, come ormai accade nella politica, ci si è assicurati la leggibilità.

Nemmeno la “cultura” è una soluzione. Jean-Luc Godard lo enunciava cinquant’anni fa: “Cultura = regola, arte = eccezione. È il proprio della regola volere eliminare l’eccezione”.

Io dico che la scrittura (vorrei dire la letteratura) non ha niente a che fare con la leggibilità. Che scrivere non c’entra nulla col mondo della comunicazione. Che c’entra con la vita, con lo sperimentare stili di vita e sensi di realtà.

Sì, per molti versi la situazione della letteratura e dell’editoria che la dovrebbe rappresentare assomiglia a quella della politica. Anche le “larghe intese” (vedi la fusione tra colossi editoriali). Un anno o due fa ho letto questa lucida sintesi di un ex editor di casa editrice, Antonio Paolacci:

“Concepite come aziende interessate al profitto, molte case editrici importanti da qualche anno affidano a consulenti di marketing e comunicazione anche le proprie scelte artistiche, culturali e letterarie. Sono diventate così aziende che, per aumentare i guadagni, mirano al cosiddetto “pubblico di massa”, di certo più numeroso, ma anche, per definizione, meno interessato alla lettura. 
Tali strategie sono oggi dominanti nell’intero mercato editoriale.
 La reperibilità dei titoli in libreria e la loro divulgazione a mezzo stampa (recensioni e consigli di lettura) dipendono molto da esperti di vendite quali distributori e librerie di catena, oltre che da accordi economici tra alcuni editori e la stampa (pubblicità, più o meno esplicita) e tra alcuni editori e librerie (affitto degli scaffali, delle vetrine etc.). Tuttavia, i lettori restano in gran parte convinti che la maggiore visibilità in libreria o nei media sia dovuta a una maggiore qualità dei libri più in vista. L’idea di scrittore e quella di editore si stanno gradualmente perdendo: a entrambi non sono più richieste professionalità, originalità, competenza, ma solo le capacità necessarie a imporsi in un mercato concepito per non-lettori…”

Nell’editoria di oggi, nell’orizzonte generale dello scrivere e del pubblicare – che non sono mai stati sinonimi, ma oggi rischiano perversamente di diventarlo – [togliendo così quella possibile esperienza, di viaggio interiore e non solo, di spazi aperti, di vita solitaria, di vita nei boschi, vorrei dire, metaforicamente, alla Thoreau] c’è quindi una solitudine immensa dell’autore, il quale, nella generale alienazione e sofisticazione del mondo editorial-letterario, ignora perfino la qualità stessa della propria scrittura, nonché le ragioni per cui viene (o no) pubblicato.

[Qualche anno fa, in una memorabile lettera al direttore di Repubblica, il regista Bernardo Bertolucci chiedeva, contro le censure e le autocensure imperanti: “un film come Novecento sarebbe possibile oggi, nella sua libertà, nella sua utopia produttiva, nella sua megalomania, nell’estremismo delle sue contraddizioni? […] E Salò, l´ultimo Pasolini girato negli stessi mesi e a poche decine di chilometri, film atroce e sublime. Sarebbe possibile oggi Salò? (Credo che oggi l’area di ciò che non risulta possibile fare, produrre e pubblicare si sia solo ampliata)]

Quello che manca rispetto al passato è ad esempio un’area di sperimentazione condivisa, un’officina variegata che sopperisca alla censura, cioè al restringimento dell’orizzonte del dicibile e del visibile. Quello che manca forse è una comunità, che intendo come diversità e moltitudine di vite e di forme. Non credo possa esistere letteratura senza comunità, credo anzi che lo “spazio letterario” sia esattamente il luogo fondativo della vita comune, ciò che crea e popola moltitudini, pluralità.

Mi chiedo allora, qui: può un’unione scrittori transnazionale, una federazione di scrittori, con tanti di burocrazia necessaria, di politica etc., contribuire alla creazione di questo? Non è un paradosso, un po’ come chiedere all’istituzione scolastica nazionale di decostruire i metodi e i contenuti attuali dell’insegnamento e trasformare i docenti in maestri, che sono agli antipodi degli insegnanti?

Forse occorrerebbe incoraggiare la costituzione di una rete di luoghi di condivisione, che fossero anche luoghi di silenzio, di distanza o salvezza dall’esilio generale, dal rumore mediatico che contraddistingue e satura oggi la nostra civiltà, le città, tutte le discariche di rifiuti linguistici tossici che costituiscono l’avvelenamento della nostra semiosfera. Penso alle città-rifugio che in alcuni stati d’Europa si sostituiscono nella politica d’ospitalità e di accoglienza di rifugiati e migranti ai governi nazionali, e che dieci/quindici anni fa, all’epoca del Parlamento degli scrittori, ospitavano e tutelevano gli esuli, gli scrittori perseguitati in patria. [Oggi, però, il sentimento d’esilio che si vive in patria, anche senza migrare, non è altrettanto delicato?]

Ed ecco quello che tengo di più a raccontare. A un’ora da Roma, nel sud dell’Umbria, ho avuto la fortuna di imbattermi in una casa (dove ora abito la maggior parte del tempo) che aveva nascosto al suo interno uno spazio magnifico, violentato per anni da pareti, controsoffitti, che nascondevano archi, capriate, lesene… insomma uno spazio magnifico con la vocazione alla condivisione, alla poesia, all’happening, all’elaborazione di enunciazioni nuove e collettive, non solo intime e private. Ho chiamato questo spazio “Stanza – Ci sono cieli dappertutto”. Stanza nel senso dantesco della parola. A partire da Dante infatti “stanza” non indica più solo lo spazio in cui il poeta elabora la propria ispirazione e il proprio “fantasma” – il proprio dialogo con l’Assoluto, come già il mistico e il monaco – ma il nome della forma stessa , dell’esito, del proprio dialogo con l’assoluto o con l’anima, cioè la forma stessa e la sostanza – sub-stanza – della poesia. La “stanza” è il luogo simbolico di un andirivieni tra interno e esterno, tra visionarietà privata ed esteriorità pubblica, proprio come lo strano destino e la buffa peripezia, oggi sempre più astratta e de-realizzata, che è fare e pubblicare testi, fare e mostrare opere, ecc. ecc. Ammesso che l’entrare in una stanza non sia stato già da sempre un modo per uscire, la ricerca di un’estasi. Che cosa è infatti “estasi” se non l’uscire in un’entrata senza fine?…

Ecco, ci sono cieli dappertutto, ci sono stanze dappertutto.

Forse una Unione transnazionale di Scrittori dovrebbe favorire e connettere una rete di stanze, quella stesse stanze che sono il sogno di ogni adolescente che voglia diventare scrittore, e di ogni poeta che voglia diventare ragazzo. C’è un bellissimo libro di Gipi che si chiama La Stanza, un altro di Lorenzo Mattotti con lo stesso titolo… C’è una vecchia canzone di Bob Dylan che è un’elegia del sogno di avere una stanza in cui stare con gli amici, scaldarsi, dirsi la verità, giocare…

Ci sono stanze dappertutto. Ci sono cieli dappertutto.