
Nell’ambito del festival Narnimmaginaria, Sabato 9 giugno alle 18,30, con replay domenica 10 giugno a mezzogiorno, si inaugura nella Stanza-Ci Sono Cieli dappertutto a Narni una mostra di fotografie di Salvatore Piermarini dedicate all’avanguardia artistica soprattutto italiana degli ultimi quarant’anni. È una straordinaria traversata del suo archivio, ma anche qualcosa di più. La mostra proseguirà fino al 29 luglio. Ho scritto per lui il testo che segue.
“Lasciare un segno”
Essere eterni: avere vissuto
Max Frisch
Salvatore Piermarini ha cominciato giovanissimo a fotografare l’arte contemporanea. Uscito dal liceo classico affamato di tutto quello che a scuola non veniva insegnato, si innamorò delle prime avanguardie e sentì di capire tutto il nuovo che scopriva nell’arte. Viene anche da quello spirito di scoperta il senso aurorale di freschezza che le sue fotografie emanano, dove gli artisti sembrano tutti (e sono) intensamente giovani, giovani per sempre (for ever young).
Il suo maestro dichiarato, il suo “spirito guida”, fu del resto Ugo Mulas, che con i suoi scatti fece conoscere al mondo la Pop Art e la Factory di Andy Wharol al tempo dei Velvet Underground e di Edie Sedgwick, la “just like a woman” di Bob Dylan. Mulas fece emergere forse per la prima volta la socialità che circonda le opere degli artisti, la complessità della scena dell’arte contemporanea, rompendo l’incantesimo dell’artista solitario che crea, allestisce, lavora e fa tutto da solo.
“Da Mulas ho imparato tutto, ma il suo sguardo era irraggiungibile”, dice Piermarini. Seguendone l’esempio poté fotografare liberamente certi artisti, senza committenza né appuntamenti, semplicemente infilandosi nelle mostre e nei musei durante gli allestimenti. “Partivo e andavo, senza sapere cosa avrei trovavo e chi. Ma la cosa che più amavo era la loro capacità di non recitare, di accorgersi della presenza di un fotografo senza farsi condizionare né mettersi in posa. Non so se dipendeva dal mio modo di vagare, dalla capacità di farmi accettare in silenzio, ma di sicuro loro, gli artisti, avevano ricevuto una grande lezione dallo sguardo di Ugo Mulas (molti di quelli che fotografavo erano già stati fotografati da lui)”.
Al di là del ritratto o del documento, al centro dell’osservazione mirabile di Mulas c’era l’azione, l’idea di stare vivendo qualcosa di importante e decisivo proprio in quel momento. In seguito gli artisti sono diventati più smaliziati, e questo, dice Piermarini, “mi ha molto aiutato: sapevano come muoversi e quali fossero i movimenti del fotografo, mi sembravano tutti più esperti di me su come stare davanti all’obiettivo, all’occhio meccanico, e non solo per un fatto generazionale. Nella storia della fotografia c’è una lunga schiera di fotografi che facevano tutt’altro, poi fatalmente incontrano gli artisti. Perfino Robert Capa, il mitico fotografo di guerra, giramondo e avventuriero, nella sua vita parigina conobbe intimamente e fotografò tutti gli artisti del primo Novecento.
“Incontrare gli artisti è stato sempre un dono, anche quando era difficile fotografarli. Gino De Dominicis, per esempio, scappava sempre, si defilava appena mi vedeva. Gino aveva un forte rapporto, anche linguistico-espressivo, con la morte. Bisognava rispettare la sua volontà, ma anche la sua teoria: ‘non voglio che del mio lavoro sia più documentato niente’. Da qui il suo apparire e scomparire, defilarsi nell’inquadratura e venire sempre mosso. Era il suo modo di essere e di fare arte: creare ma fuggire. Le sue opere erano provocatorie, struggenti e raffinatissime.
“Fotografare un artista era un dono o uno scambio reciproco. Si parlava molto del loro lavoro e di quello del fotografo, dell’immagine e della sua riproduzione, della realtà dell’immagine. Io insistevo sempre nel dire che la fotografia era per me una disciplina, non un’arte”.

Questa mostra di Salvatore Piermarini è un teatro la cui messa in scena rispecchia forma e vocazione drammaturgica delle fotografie. È l’allestimento di una moltitudine di momenti sorgivi dell’arte detta d’avanguardia, sparso sincronicamente in mille istanti, ma anche srotolabile diacronicamente, “nel corso del tempo”. Ogni foto dice un adesso, in un presente continuo. Lo spettatore oscilla tra il qui e ora del guardare l’immagine e l’essere guardato da essa, tra il presente-passato dello scatto e l’adesso dell’oggetto, la fotografia che si fa volto e che ci guarda, forse ci riguarda. Ma nella scena dell’arte anche le opere sono volti, e anche le persone possono essere opere. Che cosa si vede, in effetti, in queste fotografie?
Oggetti senza le persone, persone senza le cose. Ci sono artisti che provano smarrimento, noia, vertigine, a volte gioia. Sorridono, camminano, muovono le mani. Sembra sempre che non facciano nulla, o siano affaccendati in piccole cose senza importanza. Stanno in piedi o seduti, scrivono, guardano, e in generale aspettano, che è la più metafisica e intensa delle azioni. Li guardiamo identificandoci nei loro gesti indifesi di fronte al fotografo, poi come se il nostro guardare lo replicasse in qualche modo, finché ci si chiede: ma chi è l’autore di una fotografia che inquadra l’artista e l’opera d’arte, è quello che sta dentro l’immagine o quello che sta fuori?
La questione (che insieme al concetto di “ritratto” e quello, opposto, di “volto”, è al centro della filosofia contemporanea) non sfuggì al geniale Gino De Dominicis, per il quale solo erroneamente le fotografie sono ritenute “documentative”: “le fotografie non dovrebbero riportare il nome dell’’‘oggetto’ fotografato o dell’artefice dell’oggetto, ma solo il nome del fotografo”. Il giovane che guarda Lorenzo Lotto non è infatti un ritratto di Lotto, ma un’opera del 1967 di Giulio Paolini.
C’è forse un’ulteriore verità (e insieme un altro mistero) nelle fotografie di Piermarini che ci si offrono qui nella loro nudità di immagini, ed è l’intensità del bianco e nero. Viene in mente il film Lo stato delle cose (1983) di Wim Wenders, un film che racconta il set e le riprese di un altro film, e i cui attori sono tutti noti registi. Soprattutto quel dialogo, interpretato da Samuel Fuller, in cui si dice che la vita è a colori, sì, ma il bianco e nero è più vero, più realistico. Nel film di Wenders, girato anch’esso in bianco e nero, la frase acquista una tonalità elegiaca. Ci ricorda che la verità non si ottiene mai aggiungendo qualcosa, ma piuttosto togliendola; nello spogliarsi, non nell’addobbarsi. L’immagine in bianco e nero, in un certo senso, è “più immagine” delle immagini a colori. Vestendosi di ciò che la denuda, il bianco e nero svela immediatamente il suo statuto di immagine dell’immagine, dice la sua verità senza nessun tentativo di adeguazione naturalistica, senza illusorie consolazioni.
Non è senza importanza che il “segno” che Salvatore Piermarini ha lasciato e continua a lasciare sia in bianco e nero, e che questa mostra “segni” l’ultimo periodo di una grande avventura estetica prima dell’avvento del digitale e del suo dominio sul colore, un colore facile, a portata di chiunque in ogni momento; l’ultima estetica, forse, prima che iniziasse tutta un’altra storia, tutta un’altra vicenda, e che prenderà anche il nome di estetizzazione (che è il contrario dell’estetica). È ancora possibile oggi la solenne semplicità di “lasciare un segno” in bianco e nero?
“Lascio un segno”, e la fotografia che mostra la mano che sta scrivendo queste tre parole, è un’immagine di densità semantica pari alle formule che hanno portato la filosofia al suo estremo limite (“prendere il questo” – Hegel, das Diese nehmen; “essere-il-ci” – Heidegger, Da-Sein). Sono queste paroline, che i linguisti chiamano shifters, o deittici – come i pronomi e gli aggettivi dimostrativi, come io, come qui, come ora – la soglia insormontabile da cui contemplare il Cielo (o l’abisso) del linguaggio e dell’umano tentativo di “capire”, e quindi di lasciare un segno, di trovare la parola giusta (vedi l’ultima poesia di Samuel Beckett, Comment dire, What is the word). Scrivere queste parole sullo specchio e fotografarne il gesto non è banalmente autoreferenziale, ma apre la cosiddetta tautologia a quello che è veramente: una via d’uscita, exit, estasi nell’immensità dell’istante. Mostra l’infinito dove si trova veramente – nel qui e ora. Dietro e dentro la tautologia c’è forse solo il gioco supremo del Divino.
Non sono certo, quindi, se “lasciare un segno” sia per Piermarini sinonimo di una riuscita o di un fallimento, anche se sospetto che sia fuori da questo e altri dualismi, e affermi invece la loro unità. “Lasciare un segno” è la fotografica definizione della vita di un artista, né più né meno. E in questa azione, come in ogni vero atto estetico, l’importante è sempre il lasciare – lasciare venire, lasciare sorgere, lasciare che sia, lasciare che trovi il proprio nome, il proprio destino, lasciare andare… – mentre si contemplano le tracce inevitabilmente lasciate mentre si cercava di cancellare le proprie tracce.[1]
[1] Questo testo per Salvatore Piermarini è dedicato a Stefania Scateni.
P. S. Salvatore Piermarini (1949) si dedica alla fotografia dal 1966, affiancando al reportage dalla realtà una ricerca storico-estetica sulla fotografia. Segnalato nel 1981 dall’Annuario Americano Time-Life Photography Year, autore di molte pubblicazioni e mostre, personali e collettive, ha collaborato con diverse istituzioni in Italia e all’estero. L’ultima campagna fotografica è edita nel volume L’Aquila. Magnitudo zero, Quodlibet 2012. Dalla fine degli anni ’60 ha frequentato le avanguardie dell’arte fotografando gli artisti e il loro lavoro spesso invisibile: una sorta di reportage dalla scena dell’arte contemporanea, soprattutto italiana, condotto con curiosa e amorevole partecipazione, come quando Ugo Mulas ci rivelò l’avanguardia americana all’epoca della Factory di Andy Warhol. Lasciare un segno è una traversata negli archivi di un altro maestro.