“Metafisica della divagazione”. Le “Panchine” lette da Antonio Prete

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Sarà perché sono stato qualche tempo nel mio amato Salento dopo una lunga assenza, e perché le mie Panchine, dopo dieci anni, sono di nuovo in libreria con una copertina stranamente psichedelica, ma ho pensato  in questi giorni al grande saggista Antonio Prete, autore di studi affascinanti, tra gli altri, su Leopardi e Bauselaire. Qual è il nesso?Antonio Prete è salentino di Copertino (di cui racconta meravigliosamente la storia del Santo che volava, San Giuseppe da Copertino appunto), e ha appena pubblicato con Manni una guida intitolata Torre Saracena. Viaggio sentimentale nel Salento. Il nesso è che Antonio Prete fu tra i primi a recensire quel mio viaggio sentimentale intorno alle “panchine” che è il mio strano libro. Di recensioni ne ebbe tante, in effetti, perfino a distanza dalla sua prima pubblicazione (alcune sono leggibili nel sito Laterza, qui, altre cercandole nel blog di questo sito digitando la parola panchine), ma non c’è gratificazione maggiore dell’essere avvicinato alla forma e alla tonalità del “pensiero poetante“, descritto e analizzato da Prete nei suoi saggi. Mi auguro quindi che vi interessi leggere o rileggere questa recensione ritrovata e “riscoperta” di Antonio Prete, così come lo sto facendo io in questo momento.

 

ANTONIO PRETE, recensione a Beppe Sebaste, Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne, Laterza 2008 (L’immaginazione n. 243, nov.-dic. 2008)

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È raro, e dunque prezioso, un libro che allo stesso tempo rappresenti di un oggetto, o di un tema, dimensioni e angolature e implicazioni estesissime e di quell’oggetto o tema faccia un’occasione perché il lettore possa viaggiare con la mente e interrogare nientemeno che se stesso e il proprio rapporto col mondo. Questo è il saggio-racconto Panchine di Beppe Sebaste, il cui sottotitolo (Come uscire dal mondo senza uscirne) dichiara l’implicito uso morale, cioè l’iscrizione del libro nella storia dei “manuali di filosofia della vita quotidiana”, come avrebbe detto il Leopardi traduttore del greco Epitteto.

Il libro di Sebaste, dicendo di un oggetto la cui esistenza annoveriamo, senza ulteriore connotazione metafisica, tra le cose di pubblica utilità nonostante i periodici sussulti di infastiditi benpensanti che vorrebbero abolire le panchine o renderle impraticabili per ragazzi, clochards e stranieri),  porta il lettore per città, paesaggi, parchi e strade e nel contempo pone domande essenziali sul rapporto tra la solitudine e la fantasticheria, tra il riposo e la meditazione, tra lo sguardo e la rêverie (“le bonheur d’une chambre”, diceva Pascal, e si potrebbe senz’altro attribuire quel “bonheur”, quella felicità, anche a una panchina). La panchina in questo bel libro diventa, nella variabilità delle forme e delle situazioni, un principio di unità tra il luogo, il pensiero e il sentimento: il leopardiano “sedendo e mirando” – dal quale scaturisce, come si sa, la più singolare odissea immaginativa e teoretica della poesia moderna, fino al naufragio del pensiero stesso dinanzi all’impossibilità di dire l’infinito – muove da una condizione che la panchina, nelle sue diverse ambientazioni, può replicare, o almeno sfiorare per contiguità.

Il saggio di Sebaste ha un altro merito: fa prendere vita a un oggetto, e ci accorgiamo infatti che procedendo la descrizione si popola di presenze, di luoghi, di esperienze. E il libro diventa nello stesso tempo lo studio di un artista sulla forma-panchina e una nitida, a tratti confidenziale, narrazione autobiografica che evoca passaggi, luoghi, incontri, richiama insomma relazioni tra il cammino e l’orizzonte, tra il viaggio e la scena interiore. Uno scritto sulla panchina si trasforma in una sorta di fenomenologia della sosta, alla quale piano piano si accompagna, per così dire, una metafisica della divagazione. E la divagazione mentale non è separata, come si sa, dal viaggio del pensiero lungo le vie della conoscenza, dall’interrogazione sulla propria condizione e sul senso ultimo delle cose, sull’ordine e il disordine del mondo, sull’assurdo come fondamento del tutto e sull’impossibile come meta sempre negata della ricerca interiore e del desiderio. A un certo punto, quando il cammino del lettore è già inoltrato, la rievocazione ed enumerazione di panchine conosciute e frequentate dall’autore diventa il filo immaginativo per una breve storia della contemplazione, ma anche della leggerezza intesa come principio mentale, disposizione dell’animo, attitudine fantasticante. E a proposito di leggerezza viene in mente che una delle più ariose e insieme profonde rappresentazioni, anche filosofiche, della leggerezza, è quella che fa Leopardi nell’operetta Elogio degli uccelli, e che ha come situazione d’avvio appunto un uomo, un filosofo solitario, Amelio, che è  “seduto”, una  mattina di primavera, “all’ombra di una sua casa in villa”, e si mette ad ascoltare (da una panchina?) il canto delle creature dell’aria. E divagando, confortato dal tono e dallo stile di Sebaste, potrei qui ricordare che proprio quella leopardiana operetta avevo evocato recensendo molti anni fa il libro di Calvino Palomar. E la sua costante relazione con le Operette mi aveva confessato Calvino stesso rispondendomi in una lettera, prima di passare a scrivere appunto della leggerezza  in una delle sue Lezioni americane. Che la (probabile) panchina di Amelio fosse all’origine di quella lezione? Lascio la risposta  agli intenditori di Calvino e di panchine.

Un’ultima annotazione, al margine: penso che molti lettori di questo libro possono a un certo punto trovarsi nella mia stessa condizione, che è quella di chi leggendo riconosce via via panchine che anche lui ha incontrato, luoghi che ha visitato, situazioni e fantasticherie che un tempo gli sono appartenute. Ma tutto questo lo rivede nel vivo di un altro sguardo, di un altro pensiero. E allora il libro si trasforma in una guida per andare a ritrovare quella parte di sé caduta nell’oblio o sfilacciata nella memoria.

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