Tra pochi mesi ricorrerà il bicentenario della nascita di un grande scrittore, uno dei più misteriosi e fraintesi di tutta la storia della letteratura, Herman Melville. Paolo Parisi Presicce ha tirato fuori dal cassetto una biografia ricchissima che gli aveva dedicato negli ultimi anni, e l’ha pubblicata con l’editore Mimesis. È un libro fondamentale sia per chi vuole avvicinarsi al grande autore americano sia per chi già già lo ama. È anche l’unica biografia scritta in italiano:

La parola “strano” nel titolo la capirete leggendolo: sta per estraneo, disadattato, forestiero, e tante cose simili. Melville, insomma. Del quale, a parte i primi due libri, apprezzati soprattutto dal voyeurismo dei lettori, ogni opera fu un fallimento sempre più mortificante, Moby Dick, compreso. L’autore di Bartleby lo scrivano si ritirò alla fine a fare l’ispettore delle dogane di New York… Ma quello che avevo da dire su Melville, principe del naufragio in ogni senso, l’ho già scritto tempo fa in una recensione a questa biografia, pubblicata su Venerdì di Repubblica ormai tre mesi fa, il giorno stesso della sua uscita in libreria. Eccola qui di seguito. Buona lettura (intendo del libro, non solo della recensione).
Melville, vita nomade di un artista del naufragio
Che cosa è una riuscita in letteratura (o, al contrario, un fallimento)? Dentro questa domanda si gioca il senso dell’esistenza di Herman Melville, l’autore di Moby Dick, scrittore americano disprezzato in vita ma consacrato dopo la morte tra i classici. Di lui Paolo Parisi Presicce ci offre, nel bicentenario della sua nascita, una biografia rigorosa ma anche piacevolmente narrativa. Colpito dal successo solo postumo di Melville, il suo “racconto di un tipo strano” nasce proprio da questo amoroso stupore. Forse, scrive il biografo, lo stesso Melville “preferì la vita alla letteratura”, in modo non dissimile a quella “ragionata sregolatezza” proclamata in Europa da Rimbaud.
Come un film di Michael Cimino, il libro comincia come una festa di una di quelle grandi famiglie americane di una volta, ma è solo per far risaltare meglio una parola ricorrente, presente già nel sottotitolo: “tipo strano” si riferisce alla condizione di estraneità che Melville visse nei confronti della famiglia e della società del suo tempo. Esaurito il catalogo di zii, fratelli e numerosissimi cugini, si staglia il racconto di una vita singolare – quella di un ragazzo con una passione per la lettura, precoce quanto la povertà in cui cade la famiglia, e che non ha altra scelta che imbarcarsi su una nave mercantile transoceanica per guadagnarsi il pane. Herman ha già assaggiato vari tipi di lavoro subordinato, e imparato che il lavoro è “nemico dei desideri”.
Nell’epoca delle carovane di migranti che precede i Pony Express e il telegrafo, a 22 anni s’imbarca sulla baleniera Acushnet. Quello delle baleniere era un settore importante, l’olio delle balene era molto pregiato. Melville vede i porti dell’America del Sud, le Galapagos, le isole dei bucanieri, un’umanità ricca di spontanea sensualità. In Polinesia compie l’esperienza della diserzione (ci sono sempre altre navi con cui proseguire il viaggio) immergendosi nell’esperienza di vita dei villaggi indigeni. Il viaggio per mare, osserva il biografo, è già metafora dell’avventura e dell’immaginazione, un’oscillazione continua tra ordine e disordine, rotta e fuori rotta. Melville apprende l’arte dell’affabulazione raccontando storie ai marinai. La sua scrittura è un moto continuo come il mare, una sperimentazione incessante di stili e forme, destinata all’insuccesso di fronte alle anguste aspettative dei lettori di provincia. Limitare l’avventura e l’immaginazione era d’altronde la regola del novel, nemico del romance e portatore di un conformismo mentale e sociale tutt’uno con lo stile di vita borghese. Ma “l’artista massimo del naufragio” ha una passione anche filosofica per il movimento (è pensando a Melville che Gilles Deleuze scriverà sul nomadismo della letteratura americana). E se il capitano Achab affida la propria vita al fusionale inseguimento dell’imprendibile balena Moby Dick, la parabola del destino di Melville sembra svolgersi tra un’inesauribile pagina bianca – personale versione dell’ossessionante balena, i cui arpioni conficcati sul dorso sono i pennini di una scrittura sempre più profonda, laconica e intensa – e il silenzio ultimo di Bartleby lo scrivano.
Intanto, nel mezzo del cammin di nostra vita, con un fardello di debiti e di insuccessi Melville lascia la polverosa New York per vivere in una fattoria a Pittsfield, nel Berkshire, dove si propone di scrivere, coltivare patate, sperimentare nuove idee narrative e contemplare la sua unica vacca che mangia “con tale mitezza e tale santità”. Ha conosciuto nei paraggi uno scrittore che ammira e da cui è ricambiato – Nathaniel Hawthorne, il maestro che avrebbe voluto avere – a cui nell’estate 1851 confida: “quello che più mi sento portato a scrivere è proscritto – non rende. Lo stato d’animo calmo, tranquillo, col silenzio dell’erba che cresce, in cui bisognerebbe sempre comporre le opere – quello, temo, potrò averlo di rado. I dollari mi fanno dannare”.
Sono gli anni più duri. L’anno precedente aveva scritto frasi cristalline sulla grandezza del fallimento. Aspetta le reazioni al nuovo romanzo sulla pesca alla balena, il suo chef d’oeuvre. Sarà l’ennesimo insuccesso. Ancora una volta Melville non si cura, almeno apparentemente, dei giudizi. Ha già terminato e consegnato un altro romanzo, Pierre, le cui stroncature saranno tali che l’editore farà grottescamente sapere al pubblico di averlo pubblicato solo per obbligo contrattuale, spargendo la voce che Melville fosse addirittura matto.

Nell lungo viaggio del 1856-57, Melville non cercherà solo una pausa o un nutrimento per opere future. A Liverpool ritrova e saluta Hawthorne, poi visita Egitto, Grecia, Turchia, da cui risale l’Italia e l’Europa. Il suo diario è uno scrigno di osservazioni eccentriche e deliziosamente disincantate. “Entrando in un luogo considerato sacro, è più sensato togliersi le scarpe che il cappello”. Il Cairo è desolante, e l’immensità delle Piramidi gli ricorda il mare. La loro grandezza, scrive, si coglierebbe solo da un pallone aerostatico. In Italia è spaesato, non corrisponde alla sua idea di classico. A Messina ascolta il Macbeth di Verdi diretto da lui stesso, ancora incompiuto. Pompei gli piace più di Parigi (“la stessa vecchia umanità, sia da vivi sia da morti”). Uscito dal Caffè Greco annota: “L’essere alla moda è ovunque grottesco, ma soprattutto a Roma”. Riguadagna l’Inghilterra, e il 20 maggio 1857 sbarca a New York dopo 222 giorni di viaggio. Ha 38 anni ed è totalmente libero, troppo, e forse totalmente solo. Dopo avere rivisto la famiglia e gli ex editori, si ritrova più vicino che mai alla condizione a lui più propria: quella di straniero, di tipo strano. Sempre più vicino, anche, alla beatitudine illuminata di chi si accorge che la verità non è che “l’apprendimento della condizione assoluta delle cose presenti”, accettazione del mondo così com’è.
Per un periodo s’improvvisò conferenziere, poi accettò un lavoro di ispettore alla dogana di New York, dove rimase nascosto diciannove anni a contemplare il passaggio delle merci e forse, chissà, dei migranti. Convertì la propria scrittura in poesia (“di tutti gli eventi umani, la pubblicazione d’un primo libro di versi è forse il più irrisorio”) e osservò sui campi di battaglia la Guerra di Secessione, prima di ripiegarsi quasi nel silenzio, sopravvivendo a due dei suoi quattro figli e lasciando inedito un ultimo capolavoro, Billy Budd. La sua vita scorre lungo il secolo, ma la biografia prosegue con il racconto della sua fortuna critica postuma. Difficile togliersi dalla testa che tutto questo sia un magnifico soggetto per un film: la storia di un tipo strano, un uomo gentile, silenzioso, isolato, “pronto a parlare di letteratura, tranne la propria”. Qualcuno lo faccia, questo film su Melville. A proposito: il biografo Paolo Parisi Presicce, già autore di un trattato di narratologia, è un apprezzato film-maker che ha abitato a New York.