A occhi nudi nel parco dell’arte (l’Unità, 5 aprile 2008)

Tra i grandi meriti dell’arte contemporanea non c’è solo l’invenzione e la combinazione di nuove forme e materiali, “idee” comprese (nel senso del rifiuto di “rappresentarle”). C’è soprattutto la sperimentazione di nuovi modi di avvicinarsi all’arte, nuovi rapporti che con l’arte (anche quella non contemporanea) possiamo intrattenere. Non è solo il superamento dei luoghi in cui l’arte si mostra dall’Ottocento, in una dimensione sempre più privata, come la galleria. E’ l’allargamento al contesto, la partecipazione comunitaria delle opere, con un’attenzione nuova ai temi del paesaggio, dell’abitare, dell’ambiente. Così si spiega ad esempio la fecondità della Land Art, e la nascita di luoghi alternativi al museo tradizionale, spesso all’aperto. L’arte crea una relazione col pubblico che non si limita a una fruizione visiva, ma prevede un’interazione con l’intero corpo – camminare tra le opere, se non addirittura nelle opere – come esperienza estetica. E’ grazie all’arte contemporanea che la politica culturale delle città può superare il concetto angusto di arredo urbano (cioè, in breve, opere trattate come fioriere). La cosiddetta Public Art, opere e installazioni il cui essere situate nel territorio è parte integrante dell’opera stessa, promuove una politica comune della bellezza.
C’è poi l’Arte ambientale, e quella cosiddetta Site specific, e anche in Italia si moltiplicano i “parchi d’arte”, spesso per iniziativa di imprenditori e collezionisti – dalla Fattoria di Celle tra Pistoia e Prato a Fiumara d’arte in Sicilia, dal parco della Marrana a Montemarcello al Giardino di Daniel Spoerri (uno dei maestri dell’Arte povera) nei pressi dell’Amiata. Presto a Torino, in un’area industriale in trasformazione di oltre due ettari, sarà inaugurato il PAV, Parco Arte Vivente, che vuole essere “un’area verde aperta al pubblico, ma anche un nuovo museo interattivo e un luogo di incontro fra Biotecnologie, Arte Contemporanea, Ecologia”. Altri luoghi d’arte hanno un’origine diversa, come gli immensi impressionanti “cretti” di Alberto Burri, visibil anche dallo dallo Spazio, che dalle sue tele migrarono a ricoprire e custodire la memoria di Gibellina devastata dal terremoto nel 1968, come una pudica Pompei; o, diversissimo, il Giardino de Tarocchi di Niki de Saint Phalle a Capalbio. Alcuni di questi luoghi saranno oggetto di una serie di reportages d’autore su queste pagine (de l’Unità, n.d.r.).
Ma questa nuova interazione con l’arte che dobbiamo agli artisti contemporanei è forse qualcosa di antico. E’ grazie ad essi che possiamo riscoprire che anche la Cappella Sistina richiede un’analoga partecipazione, un camminare che è parte integrante del progetto estetico dell’opera. E che dire della città medievale? E cosa sarebbero state le avanguardie storiche senza la scoperta (e il relativo pellegrinaggio nel Novecento) delle grotte di Lascaux e Altamira, che tanto contribuirono all’esaltazione di una spontaneità sorgiva e di un’abitabilità dell’arte? Tutto il romanzo Nadja di André Breton è un invito a percorrere la città come una riserva di tesori percettivi, un’immensa opera d’arte. Ciò che invita a fare, in una riscoperta soprattutto delle realtà interstiziali e periferiche, il gruppo romano Stalker, che fonde arte, architettura, politica ed ecologia, e che nel libro firmato da Francesco Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica (Einaudi), percorre il nomadismo estetico dalla preistoria – epoca in cui la scultura verticale nasce come orientamento spaziale – al Dadaismo degli anni ‘20, al Situazionismo degli anni ’60, e naturalmente alla Land Art, Richard Long soprattutto.
Alcuni anni fa, in compagnia dello scultore Kan Yasuda, mi trovavo a East Hampton (Long Island, N.Y.) ospite di Ruth Guggenheim Nivola, vedova di Costantino Nivola, il grande artista sardo emigrato in America negli anni del fascismo. Toccavo con mano i modelli delle sculture maggiori di Nivola, oppure i suoi bellissimi “letti” di terracotta, grandi come micche di pane. Camminando tra la casa e lo studio, attraverso il corridoio di sabbia che era esso stesso atelier (per quel sand casting che inventò un giorno sulla spiaggia di Montauk giocando coi nipotini), tra i cedri e le querce, posavamo i piedi sui modelli di pietra dei pannelli murali di Nivola, posti lì come soglie. L’emozione di camminare sulle sculture mi fece riflettere sull’uso delle opere d’arte, e ne parlai con Ruth, amorevole custode della memoria di Costantino e artista a sua volta. Le dissi che camminare su sculture era un’esperienza insolita, ma forse un tempo, all’epoca delle città, quando tra l’idea e la pratica dell’arte vi era l’idea e la pratica della comunità, di un “essere (in) comune”, e la città intera, selciato compreso, era un’ampia scultura, camminare sopra le opere fatte dall’arte doveva essere esperienza quotidiana e condivisa. Con un sorriso, la risposta soave di Ruth fu: “ma infatti una volta si sapeva camminare”.
In quei giorni avevo visitato anche il museo voluto e costruito come una propria opera da Isamu Noguchi (The Isamu Noguchi Garden Museum), dove le opere del grande scultore giapponese, già maestro di Kan Yasuda, sono disposte all’interno, ma anche nel giardino esterno, di una sobria palazzina periferica tra Long Island e Queen, in una compenetrazione di natura, architettura e scultura, spazio e volumi, tatto e visione. Anche percorrere quel museo è un’esperienza attiva del visitatore. Il mio apprendistato all’arte pubblica fu dato dalla frequentazione di amici scultori come Kan Yasuda, che ha recentemente esaudito il desiderio di creare un proprio parco di sculture in Giappone (e di cui si è appena conclusa una splendida mostra ai Mercati di Traiano a Roma, dove i suoi marmi e bronzi, posti tra i resti archeologici, sembravano più antichi delle pietre e capitelli romani), o come il francese Jean-Paul Philippe, che ha disseminato le sue sculture come monoliti nei terreni d’argilla a sud del Chianti. Non si tratta solo uscire dai luoghi di fruizione abituali, di stare all’aperto o comunque in un luogo che non sia un contenitore preesistente, ma di inventare un contesto che prende forma e visibilità insieme alle opere, e sia il luogo di un’esperienza estetica. Le opere d’arte così situate non stanno come merci al mercato (o appese alla parete, non importa), ma allo stesso modo di piante in un orto botanico, o meglio ancora in un lembo di natura non addomesticata. Camminare nell’arte non significa solo attraversamento di spazi, ma pratica estetica e di conoscenza, dove il sentire comprende il toccare, guardare, ascoltare, assaporare, annusare, confondersi col paesaggio, perdersi, riorientarsi, e trasforma il luogo da spazio astratto e cartesiano a dimensione vissuta e affettiva.
Evidentemente lo stesso discorso vale per la pittura e le altre arti. Vale, per esempio, per la Galleria l’Attico di Fabio Sargentini a Roma, che lungi dall’essere un contenitore neutro ha partecipato e ispirato ogni mostra-evento, mostrando come la cornice, il margine, sia già sempre parte dell’opera. L’atteggiamento che le opere richiedono, e non da oggi, non è una fruizione ma una contemplazione. Contemplazione, ricordavo su queste pagine a proposito dell’opera di Claudio Parmiggiani, viene da tempio, e contemplare è come recintare uno spazio come tempio, fondare un tempio nello spazio. Ci si può chiedere se nella nostra società tutto questo sia ancora possibile. L’arte si trova infatti nella stessa situazione paradossale della dialettica del sacro. “Sacrare” è “separare” – cose, gesti, o persone – dalla sfera dell’uso comune; profanare sarebbe viceversa restituire cose, gesti o persone all’uso comune. In una civiltà il cui estremismo mercantile porta a consumare oggetti inusabili perde sia la possibilità del sacro che quella della profanazione. Il filosofo Giorgio Agamben, nel suo libro Profanazioni (Nottetempo), spiega che “l’impossibilità di usare ha il suo luogo topico nel Museo. La museificazione del mondo è oggi un fatto compiuto […] Museo non designa qui un luogo o uno spazio fisico determinato, ma la dimensione separata in cui si trasferisce ciò che un tempo era sentito come vero e decisivo, ora non più. Il Museo può coincidere, in questo senso, con un’intera città (Evora, Venezia, dichiarate per questo patrimonio dell’umanità), con una regione (dichiarata parco o oasi naturale) e perfino con un gruppo di individui (in quanto rappresentano una forma di vita scomparsa). Ma, più in generale, tutto può diventare Museo, perché questo termine nomina semplicemente l’esposizione di una impossibilità di usare, di abitare, di fare esperienza”.
Mi si permetta un’altra piccola storia. Nei primi anni Settanta, quando giovanissimo mi affacciavo all’arte e alla poesia, fui invitato ad assistere a un festival d’avanguardia. A una certa ora del pomeriggio, ne pressi di un paesino dell’Emilia, ci sarebbe stato uno degli eventi clou. In tanti ci si trasferì, e il luogo risultò essere un cantiere dismesso, con montagne di sabbia e di ghiaia, una gru sullo sfondo, e tutti quegli elementi insieme naturali e artificiali del lavoro edile così difficili da descrivere, perché difficili da osservare. Tutt’intorno una specie di nulla. Nell’attesa dell’evento, i crocchi di persone socializzavano, camminavano, finché alcuni cominciarono a giocare come bambini sulle sabbia, salendo e ruzzolando giù dalle montagnole, interagendo con l’ambiente fino all’imbrunire. A poco emergeva la consapevolezza che quello stare lì fosse l’evento stesso, artisti e pubblico componevano con la loro interazione un’opera di spazio e tempo. Qualcosa come un “gioco”, che ricorda la favola su “L’autobus 75” di Gianni Rodari. Questo ricordo segna l’inizio della mia comprensione dell’arte, e della (sua) politica. Quando Agamben scrive che il valore d’uso, il fare uso inerente alla necessaria profanazione del sacro oggi è diventato impossibile, al culmine di un consumismo senza scopo, senza uso e senza felicità, lascia aperta la possibilità del gioco e dell’ozio (otium), che decostruisce e rende inoperoso il vecchio uso perduto. Come il camminare nelle periferie del gruppo Stalker, come la flânerie, o la passeggiata dadaista, o il nomadismo di chi rifiuta la stanzialità e la divisione del lavoro della Storia per vagare nella Preistoria. Che sia percorso sacro, danza, arte o pellegrinaggio religioso (il lavoro di Richard Long è tutto questo insieme), credo sia la potenzialità estetica dei nuovi luoghi dell’arte, nella partecipazione comunitaria alle opere.

(uscito su l’Unità, 5 aprile 2008)

Beppe Sebaste