(uscito su l’Unità del 17 dicembre 2002, in occasione della mostra su Barthes al Beaubourg di Parigi)
Non ricordo se alla notizia della morte di Roland Barthes, studente di filosofia a Bologna, fui più o meno turbato che a quella, lo stesso anno, di John Lennon. Ma so che i miei studi e quelli di tanti altri non avrebbero avuto senso senza l’attraversamento dei suoi libri. Senza la sua Lezione, che ci insegnò la critica e la consapevolezza delle imposizioni ideologiche (censure e coazioni) iscritte nella lingua, non solo nei discorsi e nelle manipolazioni pubblicitarie. Né senza Il piacere del testo, che riconduceva la scrittura (letteraria e non solo) al corpo e al desiderio, come esemplarmente mostrano i Frammenti di un discorso amoroso, o gli altri saggi che invitano a sospendere il senso e gustare l’effetto di un significante che non trovi facilmente requie in un significato rassicurante – di cui è perfetto esempio l’Impero dei segni, omaggio al Giappone e, per suo tramite, al “vuoto” e al “rito”.
Nel 1978 [non avevo ancora finito il liceo] scrissi a Roland Barthes per invitarlo a contribuire a un libretto che avevo in mente: esplorare e quindi forse licenziare, a partire da Galileo, una parola, il metaforico concetto di “rivoluzione”, così svuotata di senso da essere rivendicata nello stesso periodo in Italia da deliranti volantini delle Brigate Rosse, da Enrico Berlinguer e dal segretario della DC Benigno Zaccagnini (non è una battuta). Non so da dove mi venisse tanta faccia tosta. Facevo ancora il liceo in quel finire dei Settanta, quando Barthes, da poco “professore-artista” al Collège de France, decise di stendere un diario privato, tra l’elaborazione di un lutto (quello della madre Henriette), la pubblicazione di un libro sull’assenza (La camera chiara, saggio sulla fotografia) e il progetto di un romanzo dal titolo Vita nova. “Assenza / più acuta presenza”, recita il celebre verso di Attilio Bertolucci. Io ero allora “tra cane e lupo”, fattezze informi e indecise, ma decisamente affascinato e convinto dal tono e le parole “contro ogni arroganza” di quel disinvolto, elegante letterato con la sigaretta sempre accesa (come prima di lui il poeta Jacques Prévert), che fondava, attraversava e lasciava alle spalle metodi, discipline, scuole, campi di indagine e mode culturali, apparentemente cambiando strada ogni volta, in realtà restando fedele alla stessa: la propria. Di certo anche Roland Barthes, tra il 1977 e il 1980, anno in cui un furgone di lavanderia lo investì e uccise per strada un giorno di marzo dopo un più o meno rituale pranzo con amici, era in un momento di trasformazione così radicale e profonda che avrebbe di nuovo turbato i suoi lettori più pigri e conservatori.
Barthes mi rispose a stretto giro di posta, divertito dell’idea e chiedendomi di prolungare i tempi di scadenza (non ne feci nulla: mi bastava progettare cose, perché eseguirle?). Mi invitò amabilmente a fargli visita nella sua tranquilla rue Servandoni (non feci neanche questo: perché sciupare l’emozione di quelle parole con un gesto arrischiato?). E non importa che gli piacessero, comunque fosse, i “ragazzi”: leggendo il suo diario del periodo si è testimoni della delicata passione di chi ha rovesciato il dettato poetico accorgendosi che, in realtà, è la presenza l’assenza più acuta. Quella quiete insessuale così a lungo evocata, incarnata e tramandata nelle parole (è il proprio di ogni vita letteraria e filosofica), Barthes pervenne infine a incarnarla di persona. Il suo diario ne è resoconto quotidiano, rapporto di un eros che vive di sguardi e parole consumati per strada, al caffè, o nel silenzio della propria stanza, suonando qualche nota di piano. L’equivalente, per quanto riguarda la socialità, del “Neutro” perseguito in ricerche e seminari sui linguaggi, braccando ogni potere e ogni abuso. Neutro: “ciò che smonta il paradigma”. Che smonta, vorrei aggiungere, anche il concetto (Begriff), la sua arrogante presunzione, fosse anche quella della semiologia. Neutro che, evidentemente, non significa mai neutrale.
Dopo aver raccolto e ri-disseminato più di mezzo secolo di filosofia francese – dalla denuncia, di ascendenza sartriana, del carattere metafisico e oppressivo di ogni Doxa, la “Medusa” dell’opinione dominante e corrente; all’idea che la “traccia”, scritta o di-segnata, sia anteriore alla propria stessa origine, di discendenza derridiana – ; dopo aver declinato in tutti i modi possibili la comune radice di “sapore” e “sapienza”, di corpo e linguaggio, Roland Barthes dava forma al suo peculiare monachesimo urbano, una resa e un lasciar presa prossimi al Tao e alla sua consapevolezza insieme ordinaria e marziale: Vita Nuova. Se lo dicessi col linguaggio dei fiori, a parte la ginestra leopardiana dei deserti, proporrei la rosa (che, si dice, Barthes ponesse ogni giorno sul suo tavolo di lavoro). E, tra le tante, quella di Angelus Silesius, che “fiorisce perché fiorisce, / di sé non si cura, né chiede d’esser vista”. Così, la bella mostra in corso a Parigi, insieme tonificante e struggente, vigorosa e sfibrata di nostalgia per un futuro che non c’è stato o non c’è ancora, troverebbe il suo prolungamento naturale nel cortile del ristorante al sesto piano del Beaubourg. Dove sui tavoli, in sottili vasi di vetro, rose rosse spiccano solitarie nel cielo bianco di Parigi, incuranti della pioggia e del gelo; così raccolte, così quietamente insessuali.