A scuola da Don Chisciotte

(l’Unità, 26 aprile 2002)

 

Vorrei cominciare con un esempio preso alla lontana. In una vignetta di Altan, i soliti due personaggi dialogano stralunati: “Il Cav. Silvio Banana ha superato ogni limite”. E l’altro: “Massì, facciamo opposizione a qualcun altro”. Essa ci fa ridere non solo per la libertà narrativa interna alla storia che la rende beatamente assurda, ma perché allude alla possibilità di inventare, nella realtà, altri mondi possibili, trasferire nella nostra vita, anche politica, quella rottura liberatoria dei codici che ci consente di trattare il mondo come se fosse una storia, e viceversa. E’ la stessa libertà, potenza dell’immaginazione, che sgretolando certezze apre la strada al dubbio e al sogno, che noi facciamo risalire a Miguel de Cervantes, l’autore, nel Cinquecento, del Don Chisciotte.
La storia è nota, anche se non cessa di stupire. Uno strampalato signore della Mancha pare abbia sofferto di una patologia indotta dalla lettura dei libri cavallereschi: la sua assoluta volontà di diventare libro – di diventare anch’egli Cavaliere in cerca di avventure – lo porta a trasformare il mondo intero in un libro, e tutto ciò che vede, come i mulini a vento che sono in realtà giganti, è sottomesso a questa metamorfosi. Ma attenzione: non fu così anche per il “dubbio sistematico” di Cartesio, qualche decennio dopo? Se le certezze di un tempo, dopo la scoperta dell’infinito (Bruno, Galileo) sono diventate solo delle metafore, chi può dire che la metafora (l’ipotesi, l’induzione…) non sia la strada maestra della conoscenza? In altre parole: dove comincia la follia, e dove finisce la ragione? Non saranno esse reversibili l’una nell’altra, secondo un gioco di prospettive che attraverso il Barocco apre la strada al modo più avvertito di concepire, anche oggi, la scienza e la mutevolezza del mondo?
Già per Montaigne, contemporaneo di Cervantes, “fantasia” e illusione, o anche allucinazione, potevano essere sinonimi, senza peraltro escludere il loro senso di “mondi possibili”. Parola, quest’ultima, cui ci ha abituati la teoria della narrativa, ma soprattutto i romanzi di fantascienza americana. Prima degli esperimenti di Italo Calvino, Robert Sheckley ad esempio scrisse un esilarante e donchisciottesco romanzo,Opzioni, in cui a metà del libro il personaggio principale viene addirittura tolto di mezzo e sostituito da un intervento dell’autore, perché non più all’altezza delle avventure che deve affrontare. Capostipite (paradigma?) di questa libertà di parola e di pensiero, del cortocircuito tra testo e realtà (entrambe illusioni), resta Cervantes. Basti come esempio l’episodio inserito nel secondo volume del Don Chisciotte: l’invito dei due personaggi, il cavaliere e lo scudiero Sancho Panza, alla Corte Ducale, grazie alla loro fama letteraria prodotta dalla diffusione del primo volume; con Sancho che esibisce come propria referenza l’essere stalliere del personaggio delle famose avventure lette nel libro, “a meno che non lo hanno scambiato in culla, cioè in stamperia”.
L’occasione di ripensare a Don Chisciotte ci viene oggi da almeno due ragioni. La prima: sta per debuttare, dopo un lungo lavoro e molte prove, una versione teatrale del Don Chisciotte prodotta dalla Fondazione Teatro Due di Parma, per la regia del tedesco Henning Brockhaus, che abita in Italia da molti anni. Lo spettacolo, diviso in cinque episodi, debutterà il 26 aprile al Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia. Posso solo anticipare che sarà meravigliosamente intenso, divertente e, come si dice, molto bello. Ma non sono un critico teatrale, e il mio colloquio col regista Henning Brockhaus rientra nel dibattito sulla poesia avviato su queste pagine: “a cosa serve ciò che non serve a niente”? Parlare di Don Chisciotte è parlare della poesia “inutile e sovversiva” di cui è pervaso. Ecco la seconda ragione: che cosa c’è  di più donchisciottesco, e quindi di più necessario, che riproporre oggi a teatro Don Chisciotte? La carica liberatoria e il potenziale di resistenza culturale di questa operazione poetica è sottolineata dal regista, “in un momento storico – dice – che segna la vittoria della mediocrità, impersonata dalla TV, dal mito del profitto e dell’audience. In tutte le lingue del mondo – ricorda Brockhaus – esiste l’aggettivo donchisciottesco, ed è raro che un personaggio “buono” sia tanto amato dal pubblico, visto che di solito si stimano i mascalzoni (come Macbeth), o altre simpatiche canaglie…” Oltre ad essere, aggiungo, continuamente riletto e interpretato nei secoli, fino alla versione cinematografica di Orson Welles o a quella romanzesca al femminile e punk della poetessa americana Kathy Acker.
“Rileggendo Don Chisciotte – mi dice Henning Brockhaus – mi è sembrato assolutamente contemporaneo al nostro disagio, alla caduta dell’utopia, allo svilimento della democrazia di cui l’Italia è solo il caso più eclatante. Ebbi la congettura che dal Chisciotte di Cervantes si potesse trarre molto: non è vero che egli perda tempo a fare una polemica con la letteratura cavalleresca, essa è solo un tramite per arrivare ad altro, un’astuzia per non essere messo in croce dall’Inquisizione. Cervantes è il primo surrealista spagnolo (vedi per esempio la novella del’uomo che crede di essere di vetro, o l’episodio del “Teatrino delle meraviglie”, che contiene già il teatro dell’assurdo). La Mancha del Don Chisciotte è una no man’s land, è l’anticipazione del deserto di Aspettando Godot, dove anche la locanda è sempre la stessa. Si trattava quindi di sbarazzarsi di tutti i cliché che si erano stratificati nei secoli sul Chisciotte, anche linguistici, e liberarne il linguaggio crudo, o certi personaggi, come le puttane, che sono puttane e nient’altro, fuori dalla locanda. Si trattava – continua con passione il regista – di fare i conti con una ricerca della fantasia propria all’infanzia, ma senza che essa diventi infantile, con un’immediatezza che è di incredibile attualità, come l’esigenza di evadere dalle regole di una normalità che è poi la vera follia. Anche se lo spettacolo evoca il rischio della follia vera e propria, minaccia sempre presente.”
Henning Brockhaus mi rende partecipe del suo entusiasmo non solo per la figura del Chisciotte, ma ancora di più per lo scrittore Cervantes, che fu anche un grande viaggiatore, e di cui sottolinea la raffinata cultura. Molte delle sue trovate appaiono cifrate, spiega, scritta in un codice del tutto comprensibile nella sua epoca, ma in parte a noi ignoto. Mi parla anche dei numerosi effetti di straniamento suggeriti dal testo, da lui ritradotti sulla scena. All’andirivieni tra realtà testuali ed extratestuali del libro di Cervantes, nella versione teatrale corrisponde, a parte la presenza dell’“autore” che interviene ogni tanto sulla scena con la sua macchina da scrivere, una sovrapposizione di viaggi interiori e di “viaggi nella memoria, nelle memorie culturali che sono oggi in pericolo”. Si passa così dal jazz a Chopin, dalla danza antica a quella contemporanea, dal barocco spagnolo a Massenet, da Paisiello al “pianoforte preparato” di John Cage: altrettanti effetti di straniamento messi in risalto dalla scenografia di Bruno Toffolutti, insieme fissa e cangiante. La scena centrale presenta infatti tavoli disposti come nella taverna di una locanda, oppure nella mensa di un ospizio, o una prigione, un manicomio, o come una metafisica sala d’attesa di terza classe. Anche se, nel corso delle nove ore di spettacolo, il pubblico verrà letteralmente circondato e coinvolto dall’azione, come in una grande festa.
Che il Chisciotte di Brockhaus inizi con un attore che recita Amleto, non deve sorprendere, anzi. La reversibilità tra i due personaggi è stata sostenuta da Turgenev in un testo, inedito in Italia, che ha orientato alcune delle scelte drammaturgiche del regista: il passaggio dal dilemma tra “essere e non essere” a quello tra “dubitare e non dubitare”. Michel Foucault, nelle sue ricerche, insegnava che la paura della follia (succeduta presto, dopo la peste del Tre-Quattrocento, a quella della morte) apparenta il teschio di Amleto all’insensatezza della vita che rende le menti più brillanti inutili e grottesche come teschi. Ma anche in Cartesio, replicava il filosofo Derrida, nella sua esperienza del Cogito che fonda l’idea moderna di ragione, follia e ragione non sono separate: viene preso il partito della ragione quando esso si riflette, e proferisce in un “discorso filosofico organizzato”: la filosofia sarebbe così “quella garanzia còlta nel punto più prossimo alla follia contro l’angoscia di essere folle”. L’idea che risulta alla fine di questo excursus è questa, e la rilancio a Henning Brockhaus: fare del Don Chisciotte un manifesto dell’etica, etica della letteratura e dell’arte, è la vera scommessa insensata, e perciò necessaria. L’etica di Amleto che ragiona sulla forza di persuasione e di commozione dell’attore (“what’s Ecuba to him?”, ripete Amleto: e come può un attore far finta di piangere?). L’etica del Chisciotte che, prigioniero, piange di non poter correre a salvare gli altri. E che soprattutto insegna, nella sua fantasia, nel suo ostinato dubitare, che i mondi diversi sono tanti e possibili.

Beppe Sebaste