(In considerazione del consenso che ha suscitato, riporto anche qui questo pensierino del mattino che ho scritto un paio di giorni fa sulla pagina di Facebook, non voglio discriminare nessuno 🙂 )
Stavo pensando a quelli che commentano sempre, poi a quelli che si occupano sempre di libri, che cercano di essere intelligenti, i critici per esempio; poi a quelli che continuano sempre a fare gli scrittori – non solo a scrivere, che come esercizio sarebbe un bel gesto se fine a se stesso, ma proprio a “fare gli scrittori” – e così mi sono detto: “Poveretti, ma come fanno a fare sempre le stesse cose, avere sempre lo stesso tono, la stessa postura di discorso, le stesse parole in bocca o sulla punta delle dita, la stessa ironia… come fanno a essere sempre uguali, a ripetersi così?”
Poi mi sono detto che non riguarda solo gli scrittori o i critici o gli intellettuali, anche se in loro si vede di più e fa più impressione, talmente sono (siamo) inutili, ma riguarda tutti.
E quindi: secondo me come minimo uno a una certa età dovrebbe smettere di essere se stesso e diventare qualcun altro, d’ufficio, come andare in pensione. Andare in pensione dalla propria identità, quindi dal proprio lavoro, dai propri gesti, dai propri pensieri e abitudini. Altrimenti non è vita, è sopravvivenza, e incrostazione, è ristagno, e tutto questo non fa bene, nuoce non solo a se stessi ma all’intero ecosistema. (Che poi, secondo me, invece di una pensione – che mantiene sempre un filo col se stesso che bisogna invece lasciare – ci starebbe bene anche la giusta causa per un licenziamento, in questi casi – cioè in caso di renitenza e di ostinata conferma di sé).
Salverei da questo obbligo di pensionamento e pre-pensionamento i lavori della terra, il coltivare frutta e verdura, i riti, le preghiere e i canti offerti al Divino, la gestione di templi, il prendersi cura degli animali, far nascere, lenire e curare le sofferenze altrui, compreso il massaggiare, e in generale l’accoglienza – tutti i gesti e i lavori che debordano la propria persona e identità, quelli votati all’alterità, all’Altro, tutti i gesti che fanno a meno di riferirsi a se stessi.
Ecco, a una certa età si dovrebbe andare in pensione da se stessi per abituarsi a vivere in un mondo senza “io”. (“Io” mi prendo ancora un annetto, poi ci vado…)
Non voglio che questa pensione, da un sacco di tempo.
Ciò che oggi crea in me conflitto è proprio la costrizione a continuare a essere ancora e sempre ciò che non voglio più essere solo per avere di che nutrirmi.
C’è qualcosa di violento e volgare, nel costringere le persone a non dimettersi da se stessi che dopo i 67 anni.
Prima, o hai di tuo o hai accantonato (spesso rubato).
Mi sento incastrata, e la cosa mi fa diventare matta…
Ciao Ross, grazie di avermi seguito fin qui…