“Battiti” – Per gli ottant’anni di Bob Dylan

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Per gli 80 anni di Bob Dylan, durante la bellissima trasmissione Battiti,  le prime frasi dette da me mi sono sembrate sconnesse e scompigliate. Ho pensato fosse stato un errore del montaggio, era come se vedessi le mie frasi saltare come pop-corn, mi sembrava tutto sbagliato. Ma non era così, mi dicono. Era la mia testa. Anch’io, riascoltandomi (come concordato, solo frasi giustapposte), non ho trovato nessuno dei difetti che credevo di avere sentito lunedì notte. A parte i difetti la mia voce bassa e le mie incertezze di linguaggio, il sonoro registrato da Battiti, trasmissione notturna di Radio3, era impeccabile. Mistero. Mi scuso, quindi. Davvero. Forse è il tono di Dylan a spingermi in altre dimensioni, insieme rude e dolce.

Sono dalla mia adolescenza un dylaniato (parola inventata negli anni ’80 da un famoso dylaniato, il fotografo e amico Luigi Ghirri). Nei miei auguri per il suo ottantesimo compleanni vorrei partire da questi due versi da Billy the Kid:

Billy they don’t like you to be so free (“a loro non piace che tu sei così liberoe Billy you’re so far away from home (“Billy, sei così lontano da casa!”).

Cosa è essere liberi? Cosa è essere a casa, o lontano da casa? Sono le domande fondamentali delle poesie cantate da Dylan. Il sentimento di essere perduti è in lui una costante, ed è struggente. L’apice è il sentire se stesso come un perfetto sconosciuto, addirittura Like a Rolling Stone. Oppure accorgersi al ritorno da un viaggio che tutti gli amici che si credeva di avere sono in realtà degli estranei, dei perfetti sconosciuti, come in Rank stranger to me, che fu slendidamente adoperato per il finale di una coreografia di Cathy Josefowitz.

Dice Dylan in Simple twit of fate: forse sono io a sentire troppo, a sapere troppo, to know and feel too much. È una delle canzoni più romantiche al mondo Simple twist of fate: parla di una panchina la sera in un parco, ci fa sentire il tepore e insieme l’umidità, sembra di essere in un quadro di Edward Hopper, ma credo che un bellissimo capitolo di Breve lettera del lungo addio di Peter Handke abbia preso molto da questa canzone, che è però molto di più – parla d’amore, dell’anima gemella, ma forse sono solo illusioni, e infatti il mattino dopo la stanza è vuota, sembra uno “scherzo del destino”, ma “twist vuol dire anche svolta (del destino), quindi chissà. Forse è proprio perché Dylan dà voce al sentimento di essere perduti, senza casa, dei sans papier, clandestini, quindi dei fantasmi sociali, che le sue canzoni ci fanno sentire tornati a casa, protetti, capiti. Si sa che la nostalgia vuol dire desiderio di tornare a casa, e la nostalgia che emanano questa e altre canzoni è tale da raggiungere il paradosso di cui parlava un filosofo: “bisogna intendersi molto di illusioni per arrivare a sentire nostalgia anche a casa”.

In realtà volevo parlare del tono. Quello che distingue Dylan da chiunque altro è il tono, il tono della sua voce, delle sue parole, e il tono è una cosa misteriosa. Se la sua voce si può ancora cercare di definirla (per David Bowie sembrava fatta di “sabbia e colla”), dire cosa sia il tono è molto difficile, ma è qualcosa che prende insieme il cuore e la pancia.

Fu Luigi Ghirri a farmi conoscere il testo che Bob Dylan scrisse per Joan Baez: “Joan Baez in Concert Part Two”: È una confessione e un manifesto di poetica, e una dichiarazione d’amore verso le periferie del mondo. Dice che da ragazzo si sporcava tra i binari della ferrovia strappando ciuffi d’erba e aspettando il treno carico di ferro che veniva dalle miniere: “Lasciai che i simboli prendessero forma / e creassero per me un nemico da combattere /contro cui scagliare la lingua e ribellarmi / (…) E il mio primo simbolo fu la parola ‘bello’ / Perché le ferrovie non erano belle / Erano nere per il fumo e dal colore di fogna / e puzza e fuliggine e polvere / Avrei giudicato la bellezza secondo queste regole / Accettandola solo se era brutta /E se potevo toccarla con mano / Perché solo allora avrei compreso / Dicendo ‘questo sì che è reale’…” Ecco da dove vengono il suo tono e la sua idea di bellezza: dalla vita nuda, da uno sguardo che non discrimina mai ciò che è vero anche se è sgradevole”. A queste parole fanno da contraltare questi versi di Visions of Johanna, perfette anche da offrire a Luigi Ghirri: “dentro i musei / l’infinità viene posta sotto esame / voci echeggiano è così che / deve essere la salvezza dopo un po’ di tempo”.

Grazie, e grazie a Battiti di esistere.