Benedetto Marzullo: “I classici? Esemplari di prima classe”

L’Unità, 22 ottobre 2006

“Mi nutro di notizie”, dice, “compro quattro, cinque giornali al giorno, non solo italiani”, tra cui l’Unità, precisa, e passo a leggerli tre ore al giorno che non sono rubate a nulla, ma sono un’attività di sollecitazione e di motivazione”. “Se oggi c’è una prevalenza della visualizzazione sulla lettura, per fortuna noi continuiamo a condividere una struttura mentale di lettori, una strutturazione comunicabile de pensiero che ci rende possibile il nostro colloquio” Anche perché è sempre l’altro – in questo caso la tua presenza – a rendere possibile il pensiero, ea continuare a fare scoperte. Anche nella filologia, che è il mio mestiere”.
Sono in casa di Benedetto Marzullo a Vigna Clara (Roma), le cui vetrate offrono un panorama di alberi e collinette erbose che è forse lo stesso che aveva davanti agli occhi Orazio. Marzullo è filologo, grecista, allievo a Firenze del grande Giorgio Pasquali (di cui in una foto vedo il volto luminoso), gran traduttore di tutte Le Commedie di Aristofane (riproposte di recente in un unico volume da Newton &Compton), autore di saggi su Omero ma anche sulle origini dell’architettura (in: “Abitare la terra”, n. 8) e di svariati interventi. Ma è anche l’inventore, nei primi anni ’70, del corso sperimentale DAMS all’università di Bologna, in seguito imitato più o meno bene da oltre venti atenei in Italia. “Il DAMS (Discipline di Arte – “tutte le arti” – Musica e Spettacolo), interconnessione tra i campi del sapere, non aveva precedenti, solo avversari. Non ricorreva mai nelle discipline la parola ‘storia’, ma tutto il nostro pensare era storico”. Marzullo scopri che il metodo euristico della filologia classica non è distinto da quello di altre attività culturali e ‘artistiche’ che non avevano collocazione istituzionale in ambito universitario, e fu proprio il modello epistemologico della filologia a spingerlo a sperimentare la riunione di un universo pluridisciplinare fino ad allora escluso. E sfoglio così insieme a lui il dépliant originario che presentava il piano di studi, e che già nella grafica anni ’70 mi dà nostalgia. E’ assai significativo che, di recente, il Dams abbia conferito una laurea honoris causa a Benedetto Marzullo e, nella stessa seduta, al musicista Luciano Berio e allo scrittore Elie Wiesel, premio Nobel per la pace.
La mobilità dell’ingegno e della postura intellettuale di Benedetto Marzullo, la sua curiosità appassionata, hanno qualcosa della libertà e del nomadismo che divenne metodo in Walter Benjamin, anch’egli soprattutto filologo, ma in rotta con una società accademica di “logofili”. Anche Marzullo, nel suo fecondo andirivieni tra antichità e attualità, sembra far rivivere quel Nachleben, quella sopravvivenza, quella “irruzione della vita nelle opere” che era il cuore del metodo dei passages, e del vagabondaggio (fla^nerie) di Benjamin. Ma “sopravvivenza” è anche la qualità che definisce i classici. E sul nesso, sul passaggio tra memoria e contemporaneità, sul senso dei classici, Marzullo e io vagabondiamo per ore. Per un momento si è unito a noi il grande archeologo tedesco Bernard Andreae, di passaggio a Roma per consegnare all’amico Marzullo il suo testo su “Cleopatra e i Cesari”. Occasione per spiegare analogie e differenze tra metodo dell’archeologo e quello del filologo.
La prima domanda è canonica: a Monte Compatri, vicino a Roma, è in corso un convegno di filosofia su Cicerone, “Etica e politica”, e sempre di Cicerone parla un romanzo appena uscito per Mondatori di Robert Harris,Imperium. Al Colosseo è in corso una mostra dedicata all’Iliade (vasi, statue, bassorilievi, mosaici) e sui maggiori giornali rimbalzava la polemica assai velenosa di Luciano Canfora contro Salvatore Settis a proposito del papiro di tre metri di Artemidoro… Ci rivolgiamo ai classici per trovare risposte e soluzioni alla barbarie etica che ci circonda, oppure è solo una moda tra le altre?
“Né l’una né l’altra cosa. Queste ricorrere ai classici e all’antichità lo abbiamo sempre fatto in ogni civiltà. Ma, perché i classici non ci deludano, occorre che abbiano una consistenza formale che gli permetta di trasmettere i contenuti universali – che è poi ciò che definisce il classico: “esemplari di prima classe”. Li usiamo e li rimastichiamo, ma permangono essenzialmente se stessi, universali. E ai classici, va aggiunto, le vere civiltà ricorrono sempre. Altra cosa è la futilità di certi ricorsi, di certe rivisitazioni..”
L’aggettivo “futile”, ricordo, è stato usato da Marzullo per recensire su l’Unità sia il film kolossal Troy che il riassunto dell’Iliade di Baricco. “Futile”, mi insegna Marzullo, viene dal verbo “fingo”, e designa ad esempio la poca consistenza dei vasi di creta. Marzullo ama ricordare la differenza tra lo storico Tucidide e il fantasioso Erodoto: Tucidide ha avuto minore fortuna “perché il suo unico scopo, scrisse, era capire, non divertire. Capire il perché, non solo osservare: storiografia che nasce da un esercizio di autocoscienza, ricerca di un’identità non solo personale, ma storica e sociale.”
Parliamo quindi di memoria…
“E’ la più sorprendente delle nostre facoltà. Anche quando è perduta è in grado non soltanto di ritrovarsi da sola, ma di ricrearsi da sola. La nostra memoria non ripete mai se stessa, ma ci consegna delle riproduzioni evolute ed evolutive. Crediamo di ricordare che cosa era successo a tre anni, invece sappiamo ciò che di volta in volta abbiamo raccontato e ci hanno raccontato. La memoria è non solo vitale, ma la facoltà più ricca dell’uomo. Quando si perde la memoria, occorre tenere presente che, se memoria è registrazione dei fatti, e anche dei pensieri, dei sentimenti, ancora una volta dall’interno di noi stessi si ricreano non solo le premesse, ma anche le conseguenze aggiornate. E’ cruciale parlare della memoria per due motivi, uno funzionale: se per caso riteniamo di avere perduto la memoria, automaticamente malgrado la nostra fiducia questa si ricostituisce. Sul piano fisiologico, se io ho una ferita ho la facoltà di vederla rimarginare tanto più facilmente quanto più sono giovane. Il secondo è che, essendo una facoltà, non un strumento, è coscienza, senza la quale non avremmo memoria. E’ una peculiarità dell’uomo, che trasforma i suoi materiali individuali in linguaggio diverso.” Quanto ai supporti tecnologici della memoria,  “essi appunto non sono la memoria. La memoria è fatto interno, oserei dire “spirituale”, e dubito che gli animali possano averne. La memoria è il punto d’arrivo, anzi la disperata ricerca di punti passati di cui noi soltanto che abbiamo il senso del passato siamo capaci. Dubito molto che altre specie abbiano la stessa facoltà, ma hanno altri strumenti, che sono sensoriali. Io stesso sono molto spesso avvertito che suona il telefono prima ancora che abbia squillato, non so che cosa mi faccia scavalcare gli oceani, però accade. E con una memoria soltanto ‘oggettiva’, meccanica, non ricorderemmo niente. Non sono contro gli strumenti, per quanto la mia educazione sia oggi preistorica, e uscire dalla preistoria significa inventare la storia, essere responsabile della storia”.
Cosa pensi delle attuali e diffuse strategie di eliminazione della memoria?
“Si tratta di una strategia infame connessa col potere. Non c’è potere senza distruzione della memoria. Io ho visto quel documentario, si fa per dire, sulle Torri Gemelle, e sono rimasto allibito. Viene registrato ogni momento di questa sconvolgente sciagura, ma la registrazione ci permette d sospettare, anzi essere certi, che c’è stato un regista che ha voluto tutto questo. Sono rimasto da ragazzo molto colpito da Pearl Harbour. La coscienza, il potere americano, hanno inaugurato questi strumenti. Sapevano che sarebbe accaduto Pearl Harbour, ma attendevano lo strumento che avrebbe permesso di cambiare le leggi, incoraggiare e dichiarare la guerra, e convertire tutta la produzione industriale a fini bellici invece che a  quelli, floridissimi, del tempo. Le conseguenza è micidiale, perché quella riconversione non è mai cessata, non si è mai tornati indietro formalmente, e tuttora si producono strumenti di guerra molto convenienti al produttore, cui sono garantite sempre nuove commissioni. Essendo strumenti di guerra sono destinati ad essere imitati dal nemico e divenire obsoleti, e se ne creano sempre di nuovi, il che assicura la continuità della produzione. Si fanno guerre per saggiare gli strumenti di guerra, e per porre freno alla produzione di strumenti di guerra nelle mani degli altri, i nemici”.
Questa crucialità della memoria la vivi da studioso dell’antichità e come filologo, ma anche nella tua passione per i giornali e la politica. Qual è il nesso?
“Ho fiducia nella memoria, tanto è vero che so parlando con te. La memoria è comunicazione, se non abbiamo un destinatario, un interlocutore, non abbiamo memoria. Il che è conferma del fatto che noi non siamo monadi, e l’individualità è qualcosa di assurdo. Il linguaggio è nato sulle ali della memoria, per la necessità non solo di comunicare, e in modo formalmente inappuntabile, ma di comunicare a noi stessi – ed ecco perché senza la scrittura non saremmo noi stessi. La memoria si trasmette, in qualunque forma.
“Da sempre mi cimento a scrivere sui giornali, sono attento all’attualità, perché ritengo sia uno strumento principe per abbeverarsi. Ma a proposito del nesso tra l’attualità politica del giornali e il mio lavoro di filologo farei l’esempio di un libro perduto (nei suoi materiali cartacei, non dentro di me) che sto ricostruendo appunto a memoria – un altro tipo di memoria, quella che consiste nel rifare gli stessi percorsi mentali della prima redazione. Di che libro si tratta? Al centro del libro c’è un frammento di Alceo, il più grande dei lirici greci, e questo non per la sua individualità e personalità, aggressività e sensibilità, capacità di oggettivare e strutturare i suo prodotti, velocità fulminante da una parte, e dall’altra la sua passione melodrammatica. Di lui ci è stata trasmessa, un’ode di 14 versi, praticamente integra, ma di cui non si è finora riusciti a capire che cosa fosse e a cosa servisse. Mancava la chiave per interrogarla. Per ovviare a questa sfortuna molti studiosi hanno supposto che fosse caduta una parte introduttiva del testo che permettesse di capire il resto. Non è così. L’ode è integra, e descrive molto curiosamente un’esposizione di armi da guerra, ben strutturata e vivace. Il titolo era Marmairei demegas domos, “Balugina la grande casa”. “Balugina” è una metafora, che dice che scintillano tutte le armi che sono depositate nella megas domos, la grande casa, che è la casa del potere. Il faraone egiziano significa “la grande casa”, il tempio, sede del potere. Dunque queste armi sono depositate in un tempio, e sono le armi tolte al nemico. Testimonianza del loro valore, ma anche deposito di cose da riutilizzare, magari per dare l’assalto al tiranno. Al momento dell’ode Alceo è in esilio, vuole tornare in patria, combatte contro il governo Come? Armandosi. Manda così un’ode cantata, una lettera, ai suoi sodali e congiurati, compagni e amici, dove descrive un Tempio scintillante di armi, monito e memoria, prendendo le quali potranno vincere. Ho trovato la soluzione di questa ode grazie alla mia conoscenza di Aristofane, della cui opera so ormai l’esatta collocazione di ogni parola. In Aristofane c’è una situazione parallela. Anch’egli combatte contro il popolaccio che detiene il potere nel 424 a.C., e scrive ne I Cavalieri che anche le armi con le imbracciature conquistate a Pilo agli Spartani sono nascoste nel Tempio, nell’Acropoli. Io ho solo connesso parole e idee. La cosa più importante è saper connettere. Questo è memoria. Se la mia generazione – che comincia, ripeto, nel 1945, quando io avevo 22 anni – non avesse fatto quello che ha fatto, non potrei parlare di queste cose. Dire cioè che il potere è semplicemente violenza, prepotenza, e contro la violenza non rimane altro che consociarsi, che per battere il potere occorre impossessarsi delle armi. O vincere le elezioni, per dirlo in termini garbati”.
Parliamo ancora di classici. Lo scrittore J. M. Coetzee, in un libro di saggi (Spiagge straniere), alla domanda “che cosa è un classico” dà una risposta empirica: ciò che sopravvive – e racconta la sua scoperta casuale della musica di Bach. Nella tua seconda introduzione ad Aristofane scrivi di “persistenza”, di “essenze”, di “capacità di riassumere l’umana vicenda”, il che “non può che rasserenare”…
“Mi ha sorpreso la capacità di interrogazione e auto-interrogazione di Coetzee, i cui strumenti euristici sono certamente limitati, e surroga la limitazione con altri modi e strumenti. Ma per rendere conto della questione si deve passare dal tema della memoria a una considerazione sul concetto di civiltà, di coscienza civile. Essa consiste in esperienze che non soltanto si sono succedute, ma si sono succedute evolvendosi. Alcune civiltà sono più fortunate delle altre, come quella greca, che ha inventato gli strumenti con cui non dominare, ma inventare, creare il pensiero. I Greci inventano il pensiero, e per esso tutti gli strumenti del pensiero, compreso quello visuale, nel momento in cui fanno. Che cosa è il classico, allora? Non è quello che resta, quello che si salva, ma il punto di riferimento che noi cercavamo. Un punto di riferimento che si libera da suoi obblighi storici, dalle sue convenzioni storiche, dai suoi compiacimenti e narcisismi storici, e ci dà la chiave per intendere certe cose. L’esempio di Alceo, il più recente per quel che mi riguarda, mi connette colla mia esperienza nel Partito d’Azione, o col governo di ladroni che abbiamo appena avuto. Ma perché diciamo che qualcosa è “classico”? Per la perennità dell’interesse, che ne fa un referente obbligato. La classicità poi non è solo un punto di riferimento oggettivo, ma formale. Il vero classico è quello che ha trovato le vie più brevi per esprimere i contenuti di coscienza quanto più ampi e penetranti. E lo riconosciamo anche dopo secoli anche soltanto per un ritmo, come il verso di Alceo, o come Bach, appunto.

Beppe Sebaste