Bruno Munari (Venerdì, 14 marzo 2008)

(Il Venerdì di Repubblica, 14 marzo 2008)

Il festival Minimondi di Parma, quest’anno dedicato all’arte, è iniziato sotto gli auspici di una mostra intitolata a Bruno Munari: il disegno, il design (a cura di Gloria Bianchino).  Un’ampia retrospettiva realizzata grazie agli archivi del Csac dell’Università di Parma che celebra non solo l’artista Munari, ma il maestro. Quando lo incontrai, mi sembrò a metà tra Archimede Pitagorico e un maestro zen.
Un anno e mezzo prima della sua scomparsa [di cui ricorre quest’anno il decimo anniversario] mi trovai infatti nello studio di Munari come nel laboratorio di un mago felice. Tra esempi di arte e creatività tratti da ogni materiale immaginabile (per i maestri non esiste materiale sterile), la nostra conversazione fu per me una vera esperienza. Inventore non solo di “cose”, ma di processi mentali, nel suo passarmi giocoso i più svariati oggetti – dal tetraedro del cartoccio del latte a una foglia di fico d’India di cui mi mostrava la nervatura a esagoni – Munari esemplificava la teoria più avanzata nel campo delle scienze umane, quella del deutero-apprendimento, o imparare a imparare, proposta da Gregory Bateson, inventore della Ecologia della mente. Munari era un osservatore della natura (come Galileo Galilei), da cui traeva e trasmetteva meraviglia (proprio come Galileo). In Design e comunicazione visiva (Laterza), che raccoglie gli appunti sulla didattica delle forme elaborati per un ciclo di lezioni a Cambridge nel 1967, spiegava così la creatività agli aspiranti designer: “La forma definitiva di questi oggetti ha la naturalezza delle cose prodotte dalla natura stessa: imitazione di sistemi costruttivi e non imitazione delle forme finite, senza capire la struttura che le determina”. Natura, per lui, era anche la rete a rombi dei pollai, che portava a esempio.
Forse imparò dalla natura anche a sottrarsi come pochi al narcisismo costitutivo degli artisti. Munari non si identificava nella produzione di valore e plus-valore (estetico, economico) delle proprie opere, ma considerava opera la trasmissione del fare arte, cioè faceva delle proprie opere una didattica dell’arte. E’ divertente rileggere nel catalogo della mostra di Parma l’intervista che Munari concesse nel 1979 ad Arturo Carlo Quintavalle, storico dell’arte dell’università di Parma. Di fronte a domande che cercano di incorniciare e situare l’opera di Munari in una tradizione, misurando affinità e divergenze con altri artisti del Novecento, Munari resta costantemente elusivo, riportando tutto a un piano di beata evidenza. Sollecitato su Kandinsky e gli astrattisti, racconta che le sue “macchine inutili” nacquero dalla scoperta che l’arte astratta fosse una “rappresentazione verista di oggetti”, una “natura morta” di triangoli, quadrati, linee e piani invece che bottiglie e pere: lui estrasse le forme dal fondo di quei dipinti per costruirle nello spazio reale. Di Calder dichiara che fu “il primo scultore degli alberi”, e delle proprie “strutture appese” (che l’intervistatore collega a Brancusi e Arp) dice che quella ricerca aveva un mero aspetto economico: “ciò che è appeso costa meno di ciò che è appoggiato”. A domande sul Bauhaus, il design industriale e i giocattoli, Munari ricorda che “progettazione è anche un laboratorio di bambini al museo”, e “il modo più corretto di affrontare il problema della progettazione di un giocattolo quello di immedesimarsi nella natura infantile”, ma “meglio ancora è insegnare ai bambini a costruirsi i giocattoli”. La sua carriera di artista e designer, tutt’uno con quella di insegnante, si riassume in una sperimentazione assidua e giocosa. Dai “libri illeggibili” alle “sculture da viaggio”, dalle forchette all’incontrario alle illustrazioni di favole di Rodari, fino ai suoi laboratori tattili, visivi ecc. – Munari fu agli antipodi della valorizzazione degli oggetti seriali alla Warhol, avverso a ogni consumismo. “Il mio pensiero costante – diceva – è sempre stato quello di fare un vero servizio al consumatore e non lavorare per la speculazione. Gli oggetti da me disegnati sono spesso di basso costo, ma perfettamente funzionali: una lampada deve fare una buona qualità di luce, non deve essere anche molto cara”. E sull’influenza dello Zen e la cultura orientale: “La differenza sta nel voler dominare la natura (gli occidentali) con quel che ne segue, e il cercare di essere nella natura (gli orientali). […] La casa tradizionale giapponese è povera ma accogliente e funzionale al massimo, non c’è spreco, la manutenzione è minima, i materiali sono giusti e veri. Le nostre case popolari costano di più e danno un senso di miseria”.
Per Munari l’arte era soprattutto felicità mentale, in una coincidenza di utile (educativo, funzionale, civile) e inutile (come le sue meravigliose “macchine inutili”: il bello, il giocoso, ciò che ha un fine in sé). Mi tessé l’elogio degli oggetti anonimi, antecedenti al concetto stesso di design, “che più semplici non si può, più economici non si può, più funzionali non si può”, quindi perfetti, come la sedia a sdraio, il leggio a tre piedi degli orchestrali, o l’apparecchio per pulire le carote. Come il suo portacenere cubico, la lampada di maglia pieghevole, ecc. All’epoca aveva appena pubblicato in Giappone l’esito di un gioco cogli ideogrammi, di cui inventò varianti, allargando il vocabolario giapponese, semplicemente intensificando lo spessore della pennellata.
“In questo mio modo di lavorare – mi disse –  non c’è più nessun confine. Si ha la sensazione di riuscire a studiare qualcosa che non si pensava neanche lontanamente. Sia nella natura esteriore che interiore, come nei giochi di parole. E’ una ginnastica mentale. Ci sono persone che non riescono a capire i giochi di parole perché pensano che ci sia solo un modo per dire. E quasi si seccano perché sentono che non capiscono”. Ecco perché quella di Munari è un’ecologia della mente.

Beppe Sebaste