Manlio Cancogni se ne è andato nel sonno ieri mattina a 99 anni. Mi sento come se con lui scomparisse un padre, in tutti i casi un protagonista e un testimone del tempo, non solo un grande scrittore senza tempo.
Nato da genitori versiliesi, vissuto a Roma fino alla laurea in Filosofia, insegnante nel 1941 a Sarzana, giornalista a Firenze dopo la guerra, poi a Milano; amico di Montale, Carlo Levi, Mario Luzi, Giorgio Bassani, Luciano Bianciardi e Indro Montanelli, per citarne solo alcuni; inviato de l’Espresso e di altri giornali, corrispondente da Parigi e dagli Usa, insegnante di letteratura italiana nel Massachusetts, scrittore prolifico e di successo (tra gli altri premi, nel 1973 vinse lo Strega col romanzo Allegri, gioventù), non si può dire che la sua non sia stata una vita intensa. Eppure per molti anni la vita di Manlio Cancogni si svolse in una dolce routine, per quanto con una duplice residenza: a Fiumetto (Marina di Pietrasanta), dove per anni fummo vicini di casa, e a Manhattan, sempre con l’amatissima moglie Rori.
La prima volta che lo vidi, con la sua schiettezza toscana prese affettuosamente in giro la mia giacca da città. Venne a casa per vedere i quadri di Cathy Josefowitz, mia moglie. Era uno scrittore un po’ mitico, di quelli che possono anche non scrivere più (ma non si smette mai di scrivere, anche se si smettesse di fare libri); io ero uno scrittore giovane, anzi cucciolo. Conoscevo il suo nome già molto prima di conoscere e amare la sua opera, come si sanno a memoria i nomi dei calciatori o dei cantanti senza conoscerli. Diventammo amici. Anche quando mi incasinai la vita lui e Rori furono per me una sponda sicura. Il 1993 affrontarono il terribile lutto della morte di Pimpa, la loro figlia americana, Annapaola, poetessa e traduttrice in inglese. Le passeggiate con Manlio, camminatore instancabile che conosceva tutti i sentieri delle Apuane, e aveva abbastanza fiato da raccontare storie anche marciando, si fecero brevi e taciturne, intorno alla Versiliana. Poi i soggiorni a New York divennero regolari, per passare una parte dell’anno col nipote. Manlio e Rori acquistarono a un prezzo d’occasione un piccolo appartamento tra la Terza e la Ventiquattresima, se ricordo bene. Aveva cominciato allora a rileggere intensamente I Promessi Sposi in una vecchia edizione italiana squinternata, trovata tra i quattromila libri della figlia (lo leggeva con Rori, passandole letteralmente i “quinterni”). Manzoni era lo scrittore che Cancogni sentiva più intimo negli ultimi anni, forse perché univa una spiritualità compassionevole al gusto della critica civile (che Cancogni condivideva per esempio con l’amico Antonio Cederna). Poco a poco riprese a parlare, a vivere, a raccontare. Alla televisione guardava lo sport. Fu la prima persona che vidi seguire il tennis in tv anche per ore, e m’insegnò ad apprezzarne la danza silenziosa – come la famosa sequenza della partita a tennis in un film di Hitchcock. Dall’altra parte del soggiorno la vetrata mostrava il mare in primo piano, che lui prediligeva quand’era grigio, nei giorni nuvolosi e piovosi che in Versilia non mancano.
Dalla Versilia a Manhattan. Ricordo la bellezza straniante di ritrovarmi a tavola con Manlio e Rori a mangiare i ceci e i fagioli “schiaccioni” di Pietrasanta, conditi con l’olio della lucchesia, di fronte all’Empire, il Rockefeller e altri famosi grattacieli, che dal vetro della cucina sembrava “di poterli toccare”. I nostri discorsi non cambiavano se si svolgevano di fronte al mare di Fiumetto o del cielo di New York. E questo grazie alla sua profonda leggerezza, la stessa che affiora dai suoi libri.
Provai uno shock leggendo i suoi bellissimi brevi racconti, (tra Kafka e Richard Brautigan, direi oggi), che ancora oggi pochissimi conoscono, e che lui mi passò in piccoli libriccini di Scheiwiller o del gallerista Pananti di Firenze. Finché decise di tornare a scrivere e a pubblicare. Mi limito a parlare di due dei suoi ultimi libri, editi da Diabasis: Sposi a Manhattan, quattro narrazioni il cui filo è una meditazione sulla vita, il lutto, le case di Manhattan e Alessandro Manzoni. E l’irresistibile Gli scervellati. La seconda guerra mondiale nei ricordi di uno di loro. “Mai più avrei pensato a una fine dell’estate e un inizio dell’autunno così incantevoli!” – vi scrive a proposito del 1941, in piena guerra. “Mi ero innamorato. M’ero dimenticato della guerra”. Del 1942, anno dei primi incontri clandestini con antifascisti, Cancogni ricorda: “Che silenzio, che pace!”.
È da “scervellati” godere del cielo e la natura mentre incombe la tragedia? La fede che lo infervorava leggendo testi marxisti nel chiuso di una stanza, svaniva davanti alla realtà della vita che fuggiva dai concetti troppo precisi e sicuri; la vita era una cosa “inafferrabile e misteriosa, più bella di ogni sogno, impossibile costringerla in una gabbia di parole”. Quando, corriere-partigiano, nel 1944 porta messaggi in bicicletta, assapora le corse fra le valli: “Che cosa sarebbero la guerra e le guerriglie, se non ci fossero questi intermezzi? (…) Abbandonatomi al piacere della discesa, dell’aria fresca, raggiunsi il fondovalle quasi senza pedalare”.
Prima che la guerra svelasse il suo volto tragico e globale, scrive Cancogni, “eravamo degli écervelés, come quelli di Coblenza al tempo di Robespierre e Napoleone, che ne aspettarono il crollo pensando che fosse per l’indomani; ma questa volta sarebbero passati più di vent’anni”. Convertitosi presto alla verità della letteratura, confessa che, con i suoi amici Cassola, Calamandrei, Pratolini, divenne antifascista per ragioni estetiche prima ancora che politiche (anche questo è da scervellati). Antifascisti, spiega, non patriottici. “A che scopo la patria? Una piccola, tangibile, magari sì. Ma la Patria col P maiuscolo, assolutamente no. E chissà che non fossimo nel giusto”.
(uscito su l’Unità, 2 settembre 2015)