
Leggo su un sito Internet: “I film di Lanzmann ci trasmettono la Shoah rendendoci testimoni, cioè responsabili”, così Beppe Sebaste su l’Unità, 16 settembre 2007, in occasione dell’uscita del cofanetto nella collana Einaudi, Stile libero DVD, contenente il film e il testo integrale dell’opera con prefazione di Simone de Beauvoir, etc. etc. Cerco allora il mio vecchio articolo, ma invano. File not found. Finché mi ricordo che perdura ormai da anni l’assordante silenzio circa le sorti dell’intero archivio del giornale l’Unità (che non definisco patrimonio dell’umanità, ma bene comune sì, ed è scandaloso che sia stato anche solo privatizzato, oltre che chiuso a chiave e reso inaccessibile). Infine ripesco la cronaca del mio incontro con Claude Lanzmann, uscita su l’Unità del 16 settembre 2007, in una pagina remota di questo stesso blog.
Mi scuso per la fretta un po’ concitata (sono “fuori mano”), ma aggiungo, a costo di ripetermi, che Claude Lanzmann, del cui decesso parlano i giornali di oggi, è stato un operatore unico, un narratore unico, un regista unico, colui che ci ha davvero insegnato l’uso politico ed estetico – cioè, l’uso di verità – della testimonianza. E il suo insegnamento, la sua opera, sono senz’altro cruciali oggi, nel tempo in cui sentiamo gli effetti più vistosi di quel napalm lungamente riversato nel ventennio liberal-pubblicitario, negli anni della politica-spettacolo-televisione, dello sdoganamento di tutto, anche del fascismo e del razzismo. Se quelli che abbiamo appena lasciato alle spalle sono stati gli anni della violenza sulle parole, ricordiamoci che a quella sulle parole segue sempre la violenza sui corpi, ed è ciò cui stiamo assistendo oggi, nel mar Mediterraneo e nel nostro Paese. Giorno dopo giorno.
Shoah, incontro con Claude Lanzmann
Quando un certo Filip Muller, membro dei famigerati Sonderkommando dei campi di sterminio (ebrei addetti ad accompagnare altri ebrei nelle camere a gas, spogliare i cadaveri, togliere capelli e denti d’oro, incenerirli), si gettò con impeto sotto le docce per morire insieme a un gruppo di donne, fu da loro rigettato fuori, perché potesse – dissero –vivere e testimoniare quell’orrore realmente accaduto. “Testimoniare”: tutto l’importante dibattito sul concetto di “testimonianza” di questi ultimi anni, che a partire dagli scritti di Primo Levi e altri ha coinvolto storici, filosofi, scrittori, cineasti e artisti, è stato avviato da Shoah, il capolavoro del cinema (e non solo) realizzato nell’arco di vent’anni da Claude Lanzmann. È questo film che ha dato il nome allo sterminio programmato degli Ebrei nei campi di morte, eponimo dunque di quello che prima, con termine falsamente pio, veniva detto “Olocausto”. Come se quella distruzione (in ebraico Shoah), l’unicità di quell’orrore pianificato, potesse essere giustificata, anche solo concettualmente, come “sacrificio”.
Vi ricordate? Cera un serial americano chiamato “Holocaust”. Shoah di Lanzmann fu la risposta europea, per così dire, ma anche il possibile sviluppo e replica della famosa, straziante, disseccata poesia di Paul Celan: “Nessuno / testimonia / per testimoni”. Per questo mi dà tanta emozione incontrare Claude Lanzmann. Ho insegnato per anni, a Parigi, una fenomenologia della testimonianza, facendo largo uso del suo film e degli scritti a esso dedicati (i più importanti raccolti dal poeta Michel Deguy nel libro Au sujet de Shoah. Le film de Claude Lanzmann, Belin 1990). Da una parte vorrei che il “soggetto” del film fosse già noto ai lettori. Dall’altra non posso ignorare che l’esperienza di essere spettatore del suo film è unica, e non vorrei assomigliare a quei giornalisti che incontrano Lanzmann senza modificare in nulla le loro abitudini mentali, senza avere visto il suo film, o amalgamandolo alla marmellata di contenuti e parole di cui ahimè sono fatti i giornali. Mancando clamorosamente il bersaglio.
Lanzmann – che prima di fare film era filosofo e scrittore, e ha diretto con Jean Paul Sartre la rivista Les temps modernes (oggi continua a dirigerla) – ha dunque in un certo senso “scoperto” la Shoah: “evento senza testimoni”, lo definì Shoshana Felman tagliando corto con tutti i meschini negazionismi. “È mai possibile parlare dall’inferno, testimoniare dal seno stesso delle fiamme che annientano il testimone?” Lanzmann ci è riuscito: con un lavoro immane, con mosaica pazienza, con interminabili inchieste, ricerche di luoghi e di persone. È riuscito a far parlare gli ultimi superstiti dei Sonderkommando, ma anche tedeschi, e polacchi che abitavano, imperturbati, a Treblinka, Auschwitz, Sobibor. Li ha collocati davanti alla cinepresa in lunghi primi piani carichi di suspence. Ha compenetrato il presente col passato e viceversa, perché la verità del film, insiste Lanzmann, riguarda l’immemorabile, non il ricordo, ma l’abolizione della distanza tra passato e presente. “Epifania negativa”, “buco nero dell’ermeneutica”, “rappresentazione impossibile”: sono alcune delle parole adoperate per dire la Shoah. Di fatto tutti i testi e le opere che interrogano Auschwitz non possono non interrogare se stessi e la possibilità della parola, delle immagini e del pensiero dopo la procedura sistematica per far sparire un popolo, una lingua, una memoria – sparizione che non prevedeva alcun resto.
Da quando il film uscì per la prima volta nelle sale, nel 1985, ci si è accorti che nulla di quello che si sarebbe dovuto sapere, dal 1945 a oggi, sulla distruzione degli Ebrei in Europa, era all’altezza dei fatti e della necessaria elaborazione di quell’orrore. Shoah è un capolavoro perché ha inventato un genere, e perché dopo di esso né il cinema, né la Storia, né il raccontare storie sono più gli stessi. Ha forgiato un pubblico la cui vita è mutata dopo esserne stato spettatore: choc, scandalo nel senso più puro della parola, raccomandabile a chiunque, di qualsiasi generazione, voglia mettersi in gioco e entrare a far parte della scomoda schiera dei testimoni. Perché il punto è questo: essere spettatori dei film di Lanzmann significa divenire testimoni, fuori da ogni retorica e da ogni delega.
L’esemplarità dell’opera risalta anche da come Lanzmann ha trattato i luoghi, interrogandosi sulla loro permanenza (dall’epoca dei campi di sterminio) e sul loro cambiamento. Le prime vertigini le ha vissute lui. “A Sobibor – mi racconta – i binari sono gli stessi di quelli che trasportarono gli ebrei che vennero gassati. All’inizio non volevo andare in Polonia. Per me era solo il luogo della morte. Ho cominciato a lavorare a film nel 1973 e ci ho messo anni a decidermi ad andare. Arrivato a Varsavia noleggiai una macchina e andai a Treblinka, a un’ottantina di chilometri. C’erano targhe commemorative, non fui particolarmente commosso. Girai in auto nei dintorni, incontrai villaggi, persone, alcune delle quali evidentemente abitavano già lì nel 1942, quanto tutto iniziò. E questo pensiero fu uno choc. E incontrai un villaggio che si chiamava Treblinka. Lo attraversai, arrivai alla stazione, il cartello diceva proprio quel nome, “Treblinka”. Mi sembrava impossibile che esistesse davvero. Fu il vero detonatore: esplosi, letteralmente. La verità era diventata vera, cioè incarnata, nell’incontro di un nome e di un luogo. E presi la decisione di girare al più presto: era l’inverno 1978, cominciai le riprese l’anno seguente”.
Per nove ore e mezza sfilano nel film i testimoni convitati e incalzati a volte implacabilmente dalla voce fuori campo di Lanzmann, con domande ripetitive e a volte ossessive. A un certo punto interroga un contadino polacco che vive a pochi metri dal campo di Auschwitz, in una giornata bellissima di sole e cielo azzurro Anche nel 1943-44 c’erano giornate così belle? “Oh, sì, c’erano giornate anche più belle”, risponde. Si moriva, ad Auschwitz, anche col bel tempo. E a proposito dell’esperienza dell’incarnare un luogo nel nome. Un effetto simile a quello di Treblinka – mi racconta – mi successe in Patagonia. Avevo intrapreso un lungo viaggio – Cile, Terre del Fuoco – ero nel deserto della Patagonia e mi dicevo: sono in Patagonia, e vedevo greggi di lama bianchi. Ma fu quando una lepre della Patagonia mi attraversò la strada che mi resi davvero conto, perché quella lepre incarnava la parola Patagonia. Amo molto le lepri. A Birkenau, lo si vede nel film, si vedono le lepri che passano sotto i reticolati dei campi di concentramento”.
Dopo anni, Shoah è arrivato anche in Giappone – al cinema, alla televisione e in dvd, suscitando un’intensa partecipazione del pubblico. Come mai in Italia arriva solo adesso? L’edizione Einaudi è bella e accurata, le immagini sono ottime, e c’è la possibilità di vedere il film nelle voci originali coi sottotitoli, modo ovviamene consigliato da Lanzmann. “Ho voglia che gli Italiani vedano questo film – mi dice con energia Lanzmann. Non c’è ragione che sia visto in tutto il mondo e non in Italia”. E sappiamo entrambi quanto nel nostro Paese un pregiudizio anti-Israele stia prendendo il posto di un antisemitismo di ritorno. Mi mostra il dvd francese di un suo vecchio film “Perché Israele”. Senza punto interrogativo. Quanto alla novità rappresentata dalla visione privata di Shoah, cioè in dvd, Lanzmann spiega:
“All’inizio ero rigido sul modo di vedere il film, volevo che avvenisse solo al cinema e tutto di seguito. Col tempo mi sono reso conto che il film è abbastanza forte per sopportare qualsiasi condizione e contesto, perfino a pezzi. Certo, vederlo dall’inizio è meglio. Quando due anni fa il film fu trasmesso in televisione da France 3 tutto di seguito, a partire dalle 21 (con l’unica interruzione del notiziario di mezzanotte), vi fu un’audience formidabile, e ancora alle sette del mattino c’erano due milioni e mezzo di spettatori. Fu un atto notevole di solitudine volontaria. Un’amica cineasta, Claire Denis, mi telefonò per dirmi l’emozione di vedere il sole alzarsi mentre continuava a vedere Shoah…”.
Lettori, fatene l’esperienza. Avrete visto senz’altro il film di finzione di Spielberg (dove lo spettatore si identifica nelle vittime), e forse vi accingete a leggere il romanzo ambiguo di Littell (dove ci si immedesima nel carnefice). Lanzmann ha inventato una triangolazione vittime-assassini-testimoni, dove i sopravvissuti parlano in quanto portavoce dei morti.
Ma i sopravvissuti alla fine siamo noi. I film di Lanzmann ci trasmettono la Shoah rendendoci testimoni, cioè responsabili. E’ la legge della testimonianza, la sua etica. Un po’ come (è il paradigma dell’etica) essere di fronte a un volto, non per guardarlo, squadrarlo, ma per essere guardati da lui. Sono tanti i volti in primo piano che ci guardano e ci riguardano nei film di Lanzmann: volti che si offrono, che soffrono. Che continuano a guardarci e riguardarci anche dopo la stranissima esperienza di uscire alla luce del giorno, dopo essere stati per ore nell’oscurità del film.