“Ci sono Buick dappertutto”

(su Buick 8 di Stephen King) (2003)

Sembra che Giorgio Manganelli, nella sua vasta, geniale e beatamente incontornabile produzione letteraria, abbia consacrato alcuni scritti inediti (leggibili nelle edizioni Quiritta) a una serie di “cose” che meriterebbero, letteralmente, la definizione di Ufo: oggetti non identificati e forse non identificabili. Secondo Manganelli, gli U.F.O. sono “dappertutto”.

E’ lo leit motiv motivo dell’ultimo romanzo di Stephen King, e la ragione per cui ci affascina. Buick 8 segna un netto scarto rispetto ai libri precedenti di King, e il mutamento non è solo nella trama, ma nell’idea di letteratura che la sostiene. Non è privo di ironia osservare che l’autore, tra i più venduti al mondo pur senza avere mai ceduto ai facili cliché, approdi con questo libro a un genere molto problematico, meta-narrativo, in un certo senso europeo, con una consapevolezza altissima della responsabilità morale del raccontare (e leggere) storie. E questo proprio mentre in Europa, ma soprattutto in Italia, la restaurazione e banalizzazione del romanzo è scesa al livello più basso, fino a confondere e sostituire, senza nessuna innocenza, la constatazione del successo commerciale di un libro al giudizio sulle sue qualità e la sua forma (ciò che del resto è già accaduto in politica). Ma andiamo con ordine.
Intanto diciamo che tutti o quasi i romanzi di King, in un ricco ventaglio di temi, situazioni, idee, travestimenti narrativi di ogni specie, mettevano in scena un conflitto fondamentale e devastante tra il Bene e il Male, dove quest’ultimo alla fine soccombe; e in cui gli eroi del bene sono sempre, secondo lo schema di una rivincita del sentimentale romance contro il razionalista novel, personaggi marginali, fuori dal modello di maschio adulto civilizzato e vincente: sono bambini e adulti infantili (It, Stand by me, Desperation, etc.), portatori di handicap (L’ombra dello scorpione), vecchi (Insomnia), vecchi e bambini insieme (Cuori in Atlantide), donne sole (Rose Madden, Il gioco di Gerald) e altrimenti “scrittori” (persone sempre un po’ inaffidabili, sotto sotto affetti dallo stesso morbo di don Chisciotte). Aggiungiamo che il prodigioso talento di Stephen King, finora, non era solo quello di colpire al cuore le nostre paure, di indurre perturbamenti e angosciosi riconoscimenti dell’Unheimlich (perturbamento, o “inquietante famigliarità”, l’una nell’altro); ma di restituirci, come nessun altro autore realista della nostra epoca ha saputo fare, la vita ordinaria, facendo della sua Derry (Maine) e dei suoi abitanti il prototipo della città qualsiasi con gente qualsiasi, comune a ogni punto dell’impero occidentale; descrivendo famiglie, scuole, centri commerciali, interni, vite private (già, private di cosa?). E’ quando non succede niente, e la normalità scorre minuziosa nelle sue pagine, che i romanzi di Stephen King producono la più parossistica tensione nel lettore: sempre più impaziente, per eccesso di suspens, dell’immancabile apocalisse.
Niente di tutto questo in Buik 8, dove accadono cose, ma tutte le aspettative di uno scatto della trama restano deluse. Il suspens della storia è nella sospensione del senso, delle forme. Non c’è il Male, e non c’è neppure il Bene. C’è solo l’altro. Buick 8 alza la posta letteraria: è un elogio dell’informe, dell’incompiuto, dell’aperto. Mentre ci racconta una storia, osserva le reazioni che la storia suscita nei personaggi e in chi li ascolta. L’agnizione, il capitolo culminante, è una sorta di rituale in cui i personaggi a turno prendono la parola per narrare i segmenti di storia di cui sono eredi e testimoni, come nella tradizione antica dell’epica bocca-a-orecchio (quelle di cui parlava Walter Benjamin nel saggio sul Narratore). La Buick 8 è un oggetto lucido e seducente, copia iperreale della mitica automobile dalla cromatura perfetta, anche se i suoi materiali non esistono sulla Terra e le sue gomme respingono ogni granello di polvere. Forse è passaggio per un altro mondo. Una coppia di agenti la trova una notte, e la mette sotto sequestro nel garage della polizia. Uno di loro scomparirà presto (inghiottito dalla Buick), l’altro passa gli anni a fare esperimenti sempre più sofisticati su quell’oggetto misterioso, capace di diffondere colori e luci abbaglianti, di diminuire la temperatura circostante, di sputare esseri vivi e cose morte, come se procreasse. Nei suoi confronti, per un patto condiviso, l’intero corpo di polizia esercita e tramanda una saggia funzione protettiva, sottraendola allo sguardo della gente e alle speculazioni che un simile Ufo potrebbe indurre. Anche distruggerla sarebbe un azzardo dalle conseguenze incalcolabili: e se aprisse una voragine verso quell’altro mondo di cui, apparentemente, si limita a essere una sorta di valvola che modera i flussi e i passaggi? Ci vuole pazienza, soltanto pazienza. Occorre conviverci. Prima o poi, come tutte le cose e le creature, anch’essa cesserà. Del resto, nell’ultima pagina una crepa sembra profilarsi sulla superficie altrimenta liscia della misteriosa, impermeabile, indistruttibile carrozzeria.
Tutto qui? Tutto qui. Tranne che anche il poliziotto-scienziato, che soggiogato dal desiderio di conoscere conduce esperimenti, morirà vittima di un incidente: guarda caso una Buick, guidata da un ubriaco. Il figlio diciottenne vuole saperne di più. Non si accontenta della storia, delle storie, proprio come l’impaziente lettore, incapace di accettare limiti alla sua pretesa di conoscere, alla nostra umana presunzione che i conti tornino, che ogni evento abbia una forma riconoscibile, una spiegazione logica. E invece resta illogico e informe, come le creature immonde che escono dal bagagliaio in un tanfo di cavolo e sale marino: creature viventi, forse pensanti, ma pur sempre aliene (e qui affiora il ricordo di quel piccolo miracolo narrativo sull’alterità, La sentinella di Frederic Brown). Creature aliene che noi umani, spaventati e logici, possiamo solo uccidere e distruggere, poi sotterrare. Fino alla scena rituale, appunto, cui manca solo il fuoco di un bivacco per farne la scena di un’iniziazione, di una sapienza attraverso la porta del narrare. Quando il ragazzo esclama, inesausto, “Voglio sentire tutta la storia!”, è il poliziotto anziano a rispondergli: “L’hai sentita, ragazzo. Solo che non lo sai”.
L’ultimo insegnamento (l’ultima parte della storia) è imparare a convivere con ciò che non sappiamo. Come la Buick 8. <“E come posso farlo?” Nella sua voce non c’era rabbia. La rabbia si era consumata. Ora tutto ciò che voleva erano istruzioni. Bene. “Tu stesso non sai da dove vieni o dove andrai, giusto?”, gli chiesi. “Eppure lo sopporti. Non inveire troppo contro questa cosa. Non passare più di un’ora al giorno a scuotere i pugni verso il cielo e maledire Dio…”
<“Ci sono Buick dappertutto”, dissi.>

Beppe Sebaste

(uscito su l’Unità, 8 marzo 2003)