Cielo e terra, beatitudine della poesia (per Claudio Damiani)

Con questo titolo redazionale, e con un po’ di ritardo, esce oggi in versione più breve su Venerdì di Repubblica una mia piccola recensione al libro di poesie di Claudio Damiani Cieli celesti, edito da Fazi.
(P.S. Su Venerdì in edicola oggi c’è anche un mio reportage dalla casa romana di Pirandello (e dai suoi fantasmi)

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Ci sono luci di segnalazione che illuminano solo se stesse, ce ne sono altre che illuminano tutt’intorno, spesso anche dentro chi le guarda. È lo stesso anche per le parole, le poesie soprattutto. Quelle dell’ultimo libro di Claudio Damiani, Cieli celesti (Fazi 2016) sono del secondo tipo, poesie che non richiamano l’attenzione su di sé, ma illuminano il lettore con un linguaggio semplice e trasparente, inducendo uno stato mentale simile a quello che producono le fotografie di Luigi Ghirri: la consapevolezza di trovarsi nel mondo, la beatitudine o evidenza che, ovunque si abiti, abbiamo un cielo sopra la testa, e terra sotto i piedi.

Che le poesie di Claudio Damiani abbiano anche il dono di ridurre la distanza tra chi scrive e chi legge, di ricostituire quindi un “pubblico della poesia” (come recitava il titolo di un’antologia degli anni ’70), lo si è potuto constatare dal vivo una domenica mattina di febbraio, ascoltando la lettura che di Cieli celesti hanno offerto, nella sala stipata di ascoltatori al cinema Nuovo Sacher, Nanni Moretti e Piera Degli Esposti. Una lettura efficace proprio per la sua semplicità, per il tono perfettamente adeguato al plain style, come si diceva una volta, dei testi di Damiani. Un po’ come il quieto successo del film Patterson di Jim Jarmusch (https://www.facebook.com/notes/beppe-sebaste/poesie-fiammiferi-e-cinema/10154886586171168), in un periodo, questo, in cui le poesie sembrano e sono l’unico forma verbale che non dice menzogne.

Di cosa parlano i testi di Damiani, ammesso che una poesia debba parlare di qualcosa? Ci dicono il tempo umano, la casa, gli alberi, gli astri, le montagne, i cieli naturalmente, forse il Divino – tutto questo con una profondità e un’umiltà che incantano. Come se la poesia stessa diventasse nel suo Dire “una cosa acchiappabile, / invisibile ma acchiappabile / (…) come fosse l’inconsistenza / e, al tempo stesso, la consistenza massima.”

Alla fine queste poesie si amano non tanto e non solo per l’eventuale saggezza dell’autore, ma per il suo amore nonostante tutto nei confronti dell’umano: “questo nostro metterci nelle mani di Dio, / consegnarci a Lui, è questo che ci mancherà?”. Del resto, “se siamo riusciti a nascere / riusciremo anche a morire”.