Come salvarsi vagabondando sul Gianicolo

C’è un quadro, nella seconda cappella a sinistra della chiesa di S. Pietro in Montorio, che a suo modo racchiude la misteriosa bellezza e sacralità del Gianicolo. Lo ha dipinto un discepolo del quattrocentesco Antoniazzo Romano e raffigura “Sant’Anna, la Vergine Santissima e Gesù bambino”. Mi ha aiutato a guardarlo, in un incontro casuale, un gentile signore con la barba, Marcello Beltramme, coltissimo autore di saggi di storia dell’arte. Il segreto del quadro è quello dell’Immacolata concezione, ovvero la Grazia. La madre della Madonna, del cui grembo il resto del quadro è emanazione, tiene un libro e lo legge assorta. Sa per esso i segreti del mondo, la Via, le Scritture. La Madonna guarda invece davanti a sé, ci guarda con tale serenità e forza interiore che il suo sguardo intenso ci riguarda: qualunque attrice o top model darebbe inutilmente l’anima per avere quello sguardo, ma non è una posa. Ora, l’immacolata concezione, contrariamente al senso comune, non sarebbe una procreazione senza la sessualità, ma l’immunità radicale, l’esenzione dal peccato originale, il riscatto di Eva: promessa di una salvezza indipendente dalla Chiesa e dal peccato. Il libro letto da Sant’Anna è un nodo teologico cruciale. E il grazioso vagabondare in quel porto franco che è il Gianicolo, il salvarmi ogni tanto su una panchina, mi mette a contatto con la Grazia salvifica (per tutti), con la liberazione dalla colpa.

Abito a Trastevere alle pendici del Gianicolo, e so l’avvicinarsi del pranzo dal colpo di cannone sparato a mezzogiorno dal colle. Dalla terrazza sul tetto vedo le stesse cose che dal Gianicolo, quindi perché andarci? In effetti uno dice Gianicolo, e intende di solito un panorama unico su Roma che si sfoglia a strati come una cipolla, tanti quanti i belvedere cui si arriva a piedi con una serie di rampe e scalini. Ma il Gianicolo (fuori dalle mura Serviane, parzialmente dentro quelle Aureliane) è un luogo speciale, dotato di una extraterritorialità che si trasmette e fa sentire liberi, beatamente stranieri. Ricco di parchi, le sue abitazioni danno l’idea dell’agio e si alternano ad ambasciate, accademie, istituti pontifici, conventi, luoghi di studio e di ritiro laici e religiosi, qualche albergo (di lusso), scuole e ospedali pediatrici (ex brefotrofi). Sembra che qui la città sia davvero finita (o stia per iniziare). Se vi trovate sullo spiazzo più frequentato del Gianicolo, piazza Garibaldi, tra suoni di giostre, grida di burattini e lo stereo del Copacabana Cafè, che spiccano nel vocìo di famiglie con bambini, innamorati e turisti, e se guardate non dalla parte della città, che si estende bianco-sporca allo sguardo dalla Farnesina a San Giovanni, facendo emergere cupole di chiese e creste di palazzi di cui ignorate il nome (e la bacheca di plexiglas col disegno della città e le didascalie non aiuta, coperta com’è dall’unto di milioni di dita e altrettanti graffiti); se guardate dall’altra parte, quella di Villa Pamphili, ebbene, quello che vedete è pura campagna. La città è scomparsa (ricompare più avanti, mentre si avvicinano la cupola di S. Pietro e la punta dorata della Chiesa Russa). Forse la cosa più importante del Gianicolo è il cielo. Non si va sul Gianicolo per vedere Roma, ma per sentirsi a contatto col cielo. E la città quasi a strapiombo sembra che sia, a volte, il mare.

Dicevo della sacralità speciale del Gianicolo. Il richiamo al dio Giano (da cui “gennaio”) collega una pluralità di miti che rimandano a una religiosità radicale: Giano è il dio delle porte (ianua, porta), dei solstizi e degli equinozi, delle aperture e degli inizi, delle iniziazioni; è il dio della nascita, delle soglie, del cammino e dei passaggi, quindi, perché no, delle passeggiate; è una specie di dio buddista delle “porte senza porta”, base di ogni spiritualità, sinonimo di “illuminazione”. Il suo essere “bifronte”, o “gemino”, in qualche modo androgino (o transessuale?), lo rende il dio che dissolve i dualismi. Ci sono molte leggende sul Gianicolo, da Ovidio a Virgilio, dal re Anco Marcio al re Numa Pompilio (seppellito sul Gianicolo); da quella di Giano-Noè – prefigurazione del problema della Salvezza – che dopo il diluvio sarebbe approdato a Ripa Grande (Trastevere) e vissuto sul Gianicolo, fino al martirio di San Pietro (altra visione salvifica) avvenuto dove sorge la chiesa detta in Montorio (Monte d’oro, per via della rena giallastra). Oltre all’eroismo di cui il Gianicolo è sempre stato teatro, da Muzio Scevola a Garibaldi.

La passeggiata del Gianicolo l’ho rifatta il primo giorno dell’anno. Salito alla chiesa di S. Pietro in Montorio ho guardato, uscendo dal Tempietto del Bramante, i pini e le palme che svettano contro il cielo e le nuvole, e i turisti che guardavano il panorama di Roma tra lo scroscio d’acqua del Fontanone (la Fontana dell’Acqua Paola) e l’Ambasciata di Spagna. Dopo qualche passo nel Viale del Parco di Villa Corsini, che costeggia il bellissimo Orto Botanico, sono entrato nella “Passeggiata del Gianicolo”, più affollata del solito. Nello spiazzo erboso circondato dai busti severi e barbuti dei garibaldini galleggiavano decine di detriti esplosi di petardi colorati e bottiglie di champagne. Ho sorriso alla solita piccola folla, su cui troneggiavano palloni colorati tenuti col filo, in piedi a guardare come un’olografica Tv in aria il teatrino dei burattini di Carlo Piantadosi, che “sopravvive per le generose offerte del pubblico (non fatelo morire)”. Il Capocabana Café e il chioschetto erano ugualmente sgargianti, colle musiche e gli sgabelli unti. Ho superato Villa Lante, grosso confetto color cappuccino, sede dell’Institutum Romanum Finlandiae, covo di umanisti finlandesi in seno alla loro ambasciata presso la Santa Sede, e ho contemplato bottiglie e petardi sul muretto panoramico con la scritta GIULIO TI AMO. Tutte le campane della città hanno suonato, come un immenso metafisico pascolo di vacche. In prossimità del Faro, all’altezza del muretto con su scritto VOGLIO MORIRE DI TE, PULCINA, ho sentito un grido venire dal carcere di Regina Coeli, proprio giù di fronte. Ho ricordato le storie dei dialoghi lancinanti tra chi è fuori e chi è dentro, tra le mogli e i mariti (Samuel Beckett, che abitava a Parigi vicino alla prigione, ascoltando grida così, scrisse Finale di partita). Calpestavo cocci di vetro e petardi consumati come un campo di battaglia, fino alla terrazza detta Anfiteatro che circonda la Rampa della Quercia. La quercia del Tasso, naturalmente, su cui ironizzò meravigliosamente Achille Campanile, alla cui ombra il poeta, dice la lapide, “vicino ai sospirati allori e alla morte ripensava silenzioso le miserie sue tutte”. Sembra un’istallazione di arte povera, un pezzo morto di tronco sostenuto da una trave di ferro: monumento alla ruggine, alla cenere, alla sopravvivenza. Cioè alla poesia. La scritta sul muretto attiguo dice un sopravvivere a portata di tutti, come un sms: TANTI AUGURI AMORE MIO – TI AMO TROPPO.
Il convento di Sant’Onofrio, dove Torquato Tasso scelse di morire, è un’oasi gestita dai Frati Francescani dell’Atonement. Seduto sull’erba di fianco alla fontana zampillante ho pensato come doveva essere quando lo visitarono commossi Goethe, Chateaubriand (“uno dei più bei siti della terra”), Leopardi. Quest’ultimo scrisse al fratello di avere pianto visitando il sepolcro del Tasso: “è il primo e l’unico piacere che ho provato a Roma”. Aggiunse considerazioni sulla sua sublime nudità rispetto ai “superbissimi mausolei” che “si osservano con perfetta indifferenza per la persona cui furono innalzati”. Dentro la chiesa dedicata a Onofrio, santo anacoreta, un dipinto di Antoniazzo Romano mostra il bellissimo volto della sua Madonna circondato di blu, nell’Annunciazione. Fuori dal cancello un cartello avverte: “zona extraterritoriale”.

Beppe Sebaste

(uscito su la Repubblica del 31 gennaio 2007)