L’ultimo appello pervenuto è “Salviamo l’Istituto Verdiano di Parma”: privo di un direttore e di un comitato scientifico all’altezza del suo prestigio, corre il rischio, dicono, di un ridimensionamento provinciale. Nella stessa città risuona l’eco del recente appello contro il declassamento da parte del MiBACT della meravigliosa Biblioteca Palatina. A Roma, dove il record mediatico l’ha vinto un cinema che non c’è (l’America, chiuso da anni, occupato di recente da un comitato di giovani trasteverini, poi sigillato dalla polizia), l’ultimo accorato appello viene da un luogo magnifico, la casa-studio di Luigi Pirandello, dove il premio Nobel abitò, scrisse e morì, meta di pellegrinaggio di emozionati turisti stranieri, ma che rischia di chiudere per mancanza di contributi economici. Le bibliotecarie che hanno proceduto alla digitalizzazione dell’archivio, inserito nel Sistema Bibliotecario Nazionale, sono da mesi senza stipendio.
La lista delle diminutio o della cancellazione di istituzioni culturali in Italia si allunga da anni – teatri disabitati, orchestre stabili divenute precarie, cinema chiusi, festival soppressi, zone archologiche trascurate, etc. – così come gli appelli per salvarli o almeno testimoniarne. È una dismissione della memoria che non riguarda solo l’Italia, visto che è di poche settimane fa la petizione internazionale contro la decisione dell’Università di Freiburg di sopprimere la celebre cattedra di Fenomenologia dove insegnarono tra gli altri Husserl e Heidegger, per istituire al suo posto una cattedra di logica che costa la metà. L’anno scorso fui tra i firmatari dell’appello per la salvaguardia del Collège International de Philosophie a Parigi, crocevia internazionale di insegnamento fondato da filosofi del calibro di Gilles Châtelet, Emmanuel Levinas e Jacques Derrida, monumento alla gratuità della ricerca, alle strette dipendenze del Ministero omonimo che ha minacciato di sospendere i fondi.
Fu Derrida a parlare contro “un economicismo miope che considera produttivi solo gli investimenti a breve termine (…) una politica ispirata dal misconoscimento cieco e dal risentimento verso tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo, addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca, l’educazione, le arti, la letteratura, la filosofia…”.
Se a questo si aggiunge il problema del provincialismo, delle incompetenze, della burocrazia e degli sprechi (nel contesto di una retorica politica della rottamazione, da evitare se non altro per rispetto ai crolli di Pompei) abbiamo un’idea più esatta della situazione italiana.
Per parlarne abbiamo incontrato Simone Verde, storico dell’arte che lavora attualmente per il Louvre di Abhu Dhabi e che alle politiche per i Beni Culturali ha dedicato un libro recente, Cultura senza capitale, edito da Marsilio. Vi si racconta lo sguardo e la valorizzazione portati sull’arte e la cultura da Vasari in poi, quindi la storia delle politiche che ne sono derivate. Dall’unità d’Italia, oltre all’esodo di opere d’arte verso le ricche potenze europee che si protrasse dal 1861 al 1909, un’assenza di progettualità si è sovrapposta a un diffuso campanilismo, quasi una “guerra tra reliquie”, causa principale della mancanza di una politica museale statale e nazionale.
In effetti, la confusione regna sovrana in noi cittadini quanto alla gerarchia delle istituzioni e delle competenze amministrative, locali e/o nazionali…
“La situazione negli ultimi anni è addirittura peggiorata, ma non è questo il punto” – dice Simone Verde. “In Italia non c’è mai stata una gestione “nazionale” della cultura intesa come servizio pubblico. Fin dall’800 si è delegato a un certo spontaneismo che riempie il vuoto quando ci sono risorse, e crolla quando c’è crisi. Per non parlare delle disordinate, roboanti iniziative municipali che pestano i piedi alle misere attività dei musei nazionali. Molti enti spariti sono in effetti poco utili, lo scandalo non sono i tagli in sé, ma che a essi non corrisponda una razionalizzazione che concentri le risorse disponibili in poche istituzioni di livello internazionale di cui l’Italia ha bisogno”.
Qualche esempio?
“Non esiste una gerarchia chiara tra le biblioteche nazionali tale da averne una centrale che porti avanti, per esempio, la digitalizzazione dei beni librari fondamentali. Non esiste un chiaro sistema di teatri nazionali che suddivida le istituzioni che servono alla produzione di opere destinate alla scena internazionale o nazionale. Non esiste un’istituzione come in Francia la RMN (Réunion des Musées Nationaux) che promuova mostre di livello internazionale con il patrimonio dei musei italiani, e centralizzi la commercializzazione di tutto ciò che ruota loro intorno, compresi i copyright delle immagini (che sono un sacco di quattrini). Non esiste una scuola nazionale per i soprintendenti, che formi una classe dirigente secondo standard internazionali. Non esiste un’istituzione deputata alla danza contemporanea, l’iniziativa è lasciata ai comuni. Non esiste un museo come lo Smithsonian a Washington o il Quai Branly a Parigi, che si occupi delle culture non occidentali e funzioni come centro di ricerca. Non esiste un museo nazionale che, limitatamente all’arte antica, funzioni anch’esso come centro di ricerca legato alla propria collezione: funzionerebbe come capofila degli altri musei analoghi (se ne parla dall’apertura della Galleria di Palazzo Corsini ma non è mai avvenuto). Idem per l’archeologia o per il contemporaneo. Non c’è da inventare, ma da fare quello che hanno fatto gli altri in Francia, Usa, Gran Bretagna e Germania, dove istituzioni nate su base locale sono divenute strumenti di politica nazionale centralizzata, e di riferimento inernazionale. Da noi invece le istituzioni legate allo Stato sono depositi, e le politiche culturali sono lasciate agli enti locali con la loro logica clientelare e il loro linguaggio vernacolare”.
Leggendo viceversa le pagine che il suo libro dedica all’eredità dell’Illuminismo nella cultura e nelle istituzioni americane (l’esempio della Smithsonian Institution a Washington), all’amministrazione Kennedy al tempo della Pop Art, al ministro Goldberg e al suo omologo francese André Malraux, sembra di sognare, perché oggi anche il welfare, l’educazione e la salute – a cui quei politici illuminati dei primi anni ’60 riconducevano la cultura e l’arte come spese necessarie – sono essi stessi in via di estinzione.
“La crisi dello stato culturale coincide con la crisi della modernità”, dice Simone Verde, cioè del progetto illuminista. “Il capitalismo che si basa sulla concorrenza investe nella cultura perché crede che l’emancipazione dei singoli abbia delle ricadute positive sulla società nel suo complesso. È il modello sperimentato in Italia con raffinatezza politica da Adriano Olivetti. Quando crolla ogni prospettiva di modernità, ecco che invece si ritorna indietro, e le risorse messe a disposizione vengono tagliate perché suonano inutili. È come per il welfare: aumenta se serve a incrementare i consumi (altro che giustizia sociale), ma se il denaro finisce in Cina perché compriamo merce importata, allora diventa non solo insostenibile, ma politicamente inopportuno, e lo si chiama “assistenzialismo”. Sono meccanismi che portano a quel riflusso che Omar Calabrese ha chiamato “età neobarocca”, come si vede nel gusto degli speculatori nel mercato dell’arte. Non dobbiamo arrenderci a questo”.
Quali ragioni abbiamo per opporci e sperare?
“La prima è che siamo in Europa, e il concetto di crescita legata allo sviluppo è al centro della nostra identità. Fuori da questo c’è la lega e il Front National, oltre alla crisi ambientale e economica di un continente senza risorse energetiche e naturali che deve fare dell’intelligenza – la cultura come capacità creativa e di innovazione a tutto tondo – l’unico modo di esistere. E poi perché oggi sono proprio i paesi extraeuropei a credere nella modernità, da noi abdicata in nome della sfiducia nel presente. Chi investe di più in cultura al momento sono i Cinesi e gli arabi del Golfo. Va spezzata la catena dell’irrazionalità, ben compresa da Keynes, che ci vuole ripiegati quando serve reagire e reattivi quando le cose vanno da sole. È il ruolo della cultura spezzare il circolo vizioso della paura”.
“Ripensandoci, in Italia siamo i soli a cadere nel meccanismo prekenesyano della paura e dei tagli: Francia, Germania e Stati Uniti hanno aumentato gli investimenti in cultura nel massimo della crisi, solo noi siamo per i tagli anche quando non c’è niente da tagliare perché le istituzioni necessarie, quelle veramente utili allo sviluppo, non sono mai state create”.
(uscito su Venerdì di Repubblica del 19/6/2015)