Racconto spesso l’apologo didattico (creato da Thierry De Duve) dell’etnologo marziano che viene sulla Terra e cerca di capire cosa si intenda qui per “arte” – parola ombrello che raccoglie diversi oggetti, riti, gestualità, ecc. Non approda a nessuna definizione certa o convincente: il concetto di arte risulta indeterminato a forza di essere sovra-determinato, e si caratterizza per una flessibilità, un’apertura, un’indeterminazione tali da rendere indiscernibili un emporio e una galleria, i banchi di Porta Portese e le esposizioni di un museo o di Arte-Fiera, una ritualità artistica da un’altra religiosa o militare. Dopo aver formulato e accantonato decine di teorie, attraversato in sintesi secoli di pensiero terrestre occidentale, il marziano conclude che lo statuto ontologico delle opere d’arte, come quello dei giochi, non è che una certa aria di famiglia. Di più: l’apertura e l’indeterminazione del concetto di arte è pertinente a definirne il concetto. Ricorrendo magari alla teoria degli atti illocutori performativi, il nostro marziano conclude che la circolarità della definizione empirica – “l’arte è tutto ciò che viene chiamato arte” – lungi dall’essere un sofisma, costituisce la specificità delle opere d’arte. Il gioco istituzionale degli operatori dell’arte troverebbe giustificazione e legittimazione in se stesso, e il marziano si arrende alla definizione di Marcel Mauss: “l’arte è, per definizione, un oggetto riconosciuto come tale da un gruppo di persone”. Ma con quali criteri? Nel suo ultimo libro, La fidanzata automatica (Bompiani 2007), Maurizio Ferraris dispiega una serie di criteri logici e ontologici per definire l’arte attraverso la definizione delle opere d’arte, “oggetti sociali” un po’ speciali.
Di solito aggiungo un finale diverso all’apologo: la scoperta che l’unica cosa che contraddistingue “l’arte” è la firma. Cioè un’istituzione (la cosiddetta autorialità), ma soprattutto marca del valore, come è definito dall’assetto capitalistico del mondo. Questa firma può anche essere un si dice, autenticazione da chi è autorevole o acclamato come tale. (In passato, quando la paternità di un’opera era meno importante di oggi e bastava l’attribuzione di una “scuola”, il valore del tramandare, del si dice, non era un pettegolezzo, ma aveva la dignità e l’autorevolezza della narrazione. La scrittura epica, ha insegnato Benjamin, poteva essere anonima, e chiunque poteva appropriarsene).
Riassumendo la questione del valore, e soprattutto quella dell’autonomia istituzionale dell’arte, Simonetta Lux, che promuove a Roma un vivace “museo laboratorio” di arte contemporanea all’università “la Sapienza”, ha osservato come gli eventi museali ed espositivi di questi ultimi anni non siano che “rituali di affermazione di protocolli vigenti e di paradigmi del valore artistico e finanziario”. Simonetta Lux ha di recente presentato in un libro corposo una ventina di artisti contemporanei: Arte ipercontemporanea. Un certo loro sguardo, Gangemi Editore 2007. Prima ancora di ogni lasciare tracce, chi fa opere d’arte, si legge, fa i conti con una “predefinitezza dei processi di legittimazione dell’arte”, imprescindibili da universi sociali come l’industria e il mercato. Insomma, il mondo del valore. Anche per questo, accanto al prevalere di una odierna vocazione “testimoniale”, di un divenire archivio dell’arte (e di un divenire arte dell’archivio), e parallelamente alla perdita di prestigio dei musei, della loro capacità di definizione e cattura dell’arte, nella prassi artistica dell’ultimo ventennio assistiamo a una sorta di riuso originale di tecniche antiche o attualissime, uno sconfinamento dei generi, una generale ibridazione di materiali, procedure, tecniche, linguaggi e modi d’uso dell’arte. Questi “ulteriori protocolli dell’arte contemporanea”, come scrive la Lux nel sottotitolo del suo libro, rinnovano la nozione di opera “infinita” (erede dell’opera “aperta” di Eco), nella ricerca costante di una “zona franca”.
Il libro di Ferraris invece non parla molto di arte contemporanea. L’orizzonte ultimo è Marcel Duchamp e il ready made. Poteva anche citare le sedie di Joseph Kosuth, dove non ci si siede, o anche il disegno della pipa di Magritte, o la stessa parola “pipa” iscritta nel disegno, ecc., esempi di una ormai classica perdita di funzione dell’oggetto rappresentato, invito a un cambio di prospettiva o di comprensione, disvelamento della rappresentazione, e se vogliamo anche lezione di linguistica. Far perdere la propria funzione a un oggetto riguarda l’arte, ma riguarda anche la sfera del sacro, come ogni pratica che separa alcuni oggetti da altri (o alcuni uomini e donne da altri, alcuni gesti e comportamenti da altri): sacrare significa “separare”, e si tratta sempre di un separare dall’uso comune, o dall’uso tout court. Cioèvalorizzare altrimenti. Viceversa, “profanare” significa restituire all’uso comune. Resta da chiedersi che cosa siano, come abbiano luogo, queste definizioni, in un’epoca, la nostra, in cui forse non c’è più né “uso” né “comune”. Solo valore, e i suoi simulacri.
Tutte le avanguardie storiche, cioè l’arte classica del Novecento, giocavano sulla perdita di funzione, di valore d’uso, degli oggetti sociali dette opere d’arte, con finalità ed effetti di risveglio dell’attenzione, di critica sociale, di cambiamento del senso stesso di cosa sia comprendere, ecc. Nel libro di Ferraris il termine “gioco” non compare. Eppure la tesi che dà il titolo al suo libro fa curiosamente pensare alla psicologia dell’età evolutiva di Winnicott: le “cose che fingono di essere persone” parrebbe l’enunciato descrittivo del bambino che gioca con l’orsacchiotto (detto “oggetto transizionale”), tramite il quale esterna e riconosce le proprie emozioni, trasferendole sull’oggetto. “Finzione” che è tramite, oltre che di conoscenza, dell’evoluzione della libido.
Ora, quello che disturba nella prospettiva ontologica, e nell’ossimoro della sua tesi finale – “le opere d’arte sono cose che fingono di essere persone, ma fingono soltanto” -(anche a parte il paternalismo maschile di chiamare queste “cose” “fidanzate”), è l’evidenza che le cose, in quanto cose, non possono fingere. Siamo noi a giocare il gioco della finzione. A giocare il gioco dell’arte. A meno che si prenda in considerazione un più ampio apparato di finzione, o di simulazione: quello che dall’analisi situazionista della società dello spettacolo, alla denuncia della sostituzione della realtà con un suo simulacro (Baudrillard) giunge ai contorni dell’attuale dominio della vita detto “biopolitica”, in cui il potere assicura e riproduce se stesso attraverso una sorta di bioestetica basata su biotecnologie – vera e propria manipolazione del sentire. E’ questo l’oggetto dell’appassionata analisi di Pietro Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, (Carocci 2007), che interroga quel che resta non solo delle arti e dell’estetica (intesa come ambito dell’esperienza sensibile), ma della vita umana, che grazie alle arti e all’estetica si apre all’esperienza dell’alterità, dell’imprevedibilità, cioè al sentire e all’apertura stessa. Situandosi tra l’insegnamento di Emilio Garroni e gli studi sul “sentire” di Mario Perniola, e rileggendo la tradizione filosofica (Kant e Nietzsche soprattutto), Montani prende in esame le forme di sostituzione del giudizio estetico al giudizio politico, alla ricerca di forme di resistenza, nelle arti contemporanee, al progetto della tecnica e del biopotere, come un “contromovimento” che sia capace dall’interno di aprire varchi emancipativi. E qui siamo giustamente ai margini della prospettiva ontologica, piuttosto posizionati in quello dell’etica. Sia l’apologo del marziano che il libro di Ferraris sono in larga misura cartesiani: pur senza la pretesa di un’illuminazione finale. Come il personaggio cartesiano “rinato dalle carte” (René Descartes), che dopo avere diviso in due tutto quello che c’è, la mente e le cose, approda nel deserto del cogito, anche per essi ha inizio la banlieue dell’alterità, quindi dell’etica, e del sentire, quindi dell’arte. Etica ed estetica sembrano sorgono dove invece si frantuma questa separatezza, dove ritrovano la loro relazione essenziale Giustizia e bellezza (come titola il libro dello psicologo junghiano Luigi Zoja (Bollati Boringhieri), di cui occorrerà riparlare.
Etica (e politica) potrebbero anche avere questo slogan animista: scoprire che siano le persone, troppo spesso, a fingere di essere persone, mentre sono solo cose, e non sanno ricambiare i sentimenti dell’arte, o fingono di farlo. Viceversa, la storia dell’arte, come quella della filosofia e della letteratura, è costellata di conversioni – qualcosa come degli innamoramenti che operano profonde trasformazioni anche della vita tramite opere e libri – e che operano anche forme di resistenza e di emancipazione.
Ma c’è anche tutta una dimensione dell’arte in si può mettere in dubbio che le opere d’arte siano “cose”. Penso all’importanza del narrativo, del raccontare e tramandare storie, di molte opere ed eventi dell’arte contemporanea. Prendiamo l’opera di Richard Long (e la Land Art). La cosa curiosa è che conosco la sua opera pur senza averla mai vista. So che l’ha fatta, ci credo, ci sono testimoni, e soprattutto è raccontata (anche da lui stesso). Il racconto è un supporto? O è il rituale dell’esperienza estetica stessa? Comunque sia, è una delle direzioni dell’arte documentate giustamente dal libro di Simonetta Lux. Long racconta per esempio che, mentre era seduto nel suo Nomad circle (cerchio nomade, fatto di pietre), in Mongolia, un pastore che pascolava le sue bestie gli si avvicinò per chiedergli una sigaretta. Ignorava che fosse un artista e che stesse facendo un’opera. Hanno poi cenato davanti al fuoco. Il succo della storia è che il pastore trovava irrilevante la sua opera d’arte, non l’aveva vista (forse) come opera d‘arte, ma proprio nella sua conclamata, riconosciuta irrilevanza, ne ha decretato la riuscita. Mi chiedo: cosa è accorgersi di qualcosa? Che cosa è lo sguardo che valorizza come arte? Siamo persone o cose che fingono di essere persone, e che automaticamente in un museo (ad es.), reagiamo a delle supposte “opere d’arte”?
Le opere d’arte di Richard Long, animista al punto di sostenere (come un monaco zen) che non c’è niente di fisso, e che le pietre sono in continuo movimento, possono sparire, e ne resta il racconto: segni di un passaggio, di un’erranza, rituali spesso senza testimoni, e che promuovono il camminare stesso come opera d’arte, come operazione estetica. Forse (ma il discorso è tutto da costruire) il destino di emancipazione possibile attraverso l’arte è nel suo rifondarsi come esperienza di vita, a costo di divenire anonima. Forse le opere d’arte non saranno nemmeno più “cose”: oggetti sociali, sì, come opportunamente li definisce Ferraris, colti nell’interfaccia del loro tramandarsi e agire su di noi, ma incontornabili come la scrittura o la testualità. Testi, però, avrebbe detto con vertiginosa anticipazione Jacques Derrida, rispetto ai quali non c’è nessun “fuori testo”.
Beppe Sebaste
(uscito su l’ Unità, 1 febbraio 2008)