Ho scritto questo testo quasi tre anni fa, qualche mese dopo la scomparsa di Umberto Eco, avvenuta nella seconda metà di febbraio 2016. Mi colpì molto e ne fui frastornato, poco dopo dovevo partire per un lungo e faticoso soggiorno nelle e sulle montagne dell’Himalaya, e solo alla fine dell’estate di quell’anno difficile e intenso potei scriverlo (di getto) e fu pubblicato sulla rivista on line doppio zero. La versione qui di seguito è lievemente corretta rispetto alla prima.
Dialogo tra Eco e Narciso
La notizia della morte di Umberto Eco, avvenuta venerdì 19 febbraio 2016, rimbalzò l’indomani su tutti i giornali, ma il livido lo sentii nei giorni successivi. Una settimana dopo annotavo nel mio diario che era per me “importante e forse urgente” scrivere sul mio lutto per Eco. Come se nell’ampiezza di riverberi che la sua morte aveva prodotto oltre la sfera più intima, un’onda, un raggio o un eco mi avesse personalmente investito. Volevo capire (è lo scopo di queste pagine) perché la sua scomparsa mi avesse così stordito.
Umberto Eco era stato uno dei miei professori a Bologna, ma non ero uno studente fedele. Più tardi ci davamo del tu ma non eravamo intimi, ed era più facile che ci incontrassimo a Place Saint-Sulpice che sotto le due Torri o a Milano. Ci sentivamo più spesso quando, in anni più recenti, scrivevo su l’Unità diretta da Furio Colombo, e fui sorpreso e gratificato quando sostenne un mio libro allo Strega. Provavo per lui da sempre una disincantata ammirazione, ma anche una distanza critica, quasi una lieve, ricercata conflittualità (non credo nemmeno se ne sia veramente accorto), una diversità che si manifestò pubblicamente la prima e unica volta in forma di diatriba narratologica: avevo ventun anni e partecipammo entrambi, professore e studente, a un convegno sul romanzo poliziesco bell’ambito di un festival del cinema a Cattolica. Parlai subito prima di lui e quando Eco prese la parola disse che il suo discorso “sarebbe stato l’opposto di quello di Sebaste” (ebbi un soprassalto: l’avevo combinata grossa?).
Il fatto è che preferivo il mistero (l’Opera aperta, quindi) alla soluzione, nel giallo e nel romanzo in generale, ma anche nel mio approccio alla filosofia. In quel convegno Eco citava Sherlock Holmes e il linguista Thomas Sebeock come modelli di “ragionevolezza”, io Dupin e i verbali sull’hashish di Benjamin come modelli di “ebbrezza”. Lui citava Peirce e le abduzioni, io le lettere al suo proprio editore di Edgar Allan Poe, maestro di Conan Doyle, che ironizzavano sui lettori ignari che il cosiddetto metodo logico fosse “solo” un effetto poetico e retorico. Preferivo la poetica alla semiotica, Rousseau a Voltaire, Derrida a Putnam, Deleuze a Derrida, Benjamin a Adorno, Korchnoi a Karpov, la mistica alla logica (ammesso che non fossero la stessa cosa), e così via. Di Peirce mi piaceva da matti il concetto di “semiosi illimitata”n(da Eco, devo ammettere, mai abbandonato, e che mi sembrava e sembra tuttora portare acqua al mio mulino, non al suo: qualcosa di simile all’infinitudine della congiunzione “e” in Deleuze e del rinvio della “a” nella différance di Derrida. In tutti i casi la filosofia era per me un genere letterario, non il contrario.
Ma Umberto Eco era l’interlocutore ideale, il più intelligente (intelligere, cioè comprendere) e con lui si poteva parlare (e scrivere) con la certezza di essere capiti. Essere capiti (e saperlo) è molto più importante che andare d’accordo o essere approvati. Che valore aggiunto ci sarebbe stato nella banalità dell’ “andare d’accordo”? Molto più proficuo (e più comodo) era tenere uno come Eco come steccato all’interno del quale esercitare il dubbio, la provocazione, il conflitto, magari accusandolo ogni tanto – lui che aveva l’autorevolezza e il potere di delimitare il campo, cioè di ampliarlo – di essere uno steccato, di avere potere e di esercitarlo. Invece di prendersela con avversari indegni (non si deve parlare con tutti, ammoniva Aristotele) non è più utile, oltre che lussuoso, polemizzare con l’illuministica intelligenza del più autorevole, colto e accogliente degli adulti per bene, magari accusandolo con mitezza di “buon senso”, ed escludendo, per loro manifesta volgarità, di prendersela con altri?
Non so se mi spiego. Sto dicendo che Umberto Eco, che profondamente stimavo (ma la stima la davo per scontata), era per me l’ultimo protettivo testimone del mio anarchico e fanciullesco sradicamento, l’ultimo riparo in qualche modo familiare al mio voler rimanere un ragazzo ribelle anche dopo i cinquant’anni. Proprio perché era una figura così solida, e per di più divertente, ho sentito il doloroso effetto della sua perdita come nudità e fragilità.
All’inizio dell’anno nuovo gli avevo mandato una copia cartacea del mio ultimo libro (che ho affidato al web come e-book), che Eco mi aveva chiesto da mesi – pur acconsentendo, anche prima di leggerlo, a che io usassi per promuoverlo una sua frase sul mio libro precedente. Scrivevo per lettori come Eco, destinatario ideale. (Che poi il destinatario possa essere in realtà il vero destinatore, lo spiegava bene G. Lukács ragionando sul concetto di “dedica” nel suo Diario del 1910).
La scomparsa di Eco è stata quindi un evento che ha innescato una revisione della mia biografia, un po’ come quando venni a sapere da un giornale che, cinquant’anni dopo, sarebbero state indennizzate le vittime italiane del Talidomide (farmaco somministrato a quell’epoca alle donne incinte che causò gravi danni ai feti). Bisognava sottoporsi a una visita e portare (a cinquant’anni dalla nascita) una documentazione scritta. Io avevo ripercorso la mia vita sotto il profilo di quel condizionamento segreto, quella ferita originaria, l’handicap di una mano sinistra con le dita priva di falangi (o falangine?) dalla nascita, fino a riconoscere e accettare il rimosso, l’essere appunto un “bambino del Talidomide”. Per esempio non avere potuto diventare pianista, violinista, sassofonista, prestidigitatore o ginnasta, pugile, trapezista o scalatore di montagne con la corda etc., e avere anzi rinunciato e trascurato il corpo a favore della mente, avere addirittura imparato a nascondere una piccola parte di sé, non appena appreso il sentimento della vergogna – vergogna di una parte di sé diversa, forse un po’ mostruosa – e alla fine, per una serie di passaggi, vergogna e di conseguenza orgoglio di essere un intellettuale, poiché l’handicap fisico mi spinse verso l’intelligenza della mente piuttosto che quella del corpo, verso lo spirito a dispetto della fisicità, ma anche verso l’empatia e la sensibilità.
Adesso ripercorrevo mentalmente l’autostrada che dal liceo classico mi portò al dottorato, con soste e deviazioni nella poesia (beat), lo Zen e uno stile di vita con alto tasso di sperimentazioni. Le pubblicazioni cosiddette “scientifiche” a un certo punto mi annoiarono, nei miei rapporti di lavoro con le università di Bologna, Ginevra, Losanna, Parigi etc. avvenne una graduale dismissione – misto di ritrosia, presunta inadeguatezza, orgoglio – , l’autostrada non si interruppe ma io ne uscii a favore di uno zigzagare nelle più avventurose “strade blu”, ovvero la difficile libertà di essere il proprio capufficio e datore di lavoro.
Hannah Arendt, ne Il pescatore di perle, definì questa condizione che fu di Walter Benjamin (forse il primo tragico precario) col termine anacronistico di homme de lettres, geniale eufemismo per dire una non-appartenenza al mondo accademico e un’inadeguatezza al lavoro nella società borghese in generale. Tutto il contrario, evidentemente, di un intellettuale come Umberto Eco, che cavalcò con successo ogni ambito, dalla tv all’università, restando assolutamente se stesso, raggiungendo una grande popolarità e lauti guadagni con l’intelligenza, l’erudizione e un formidabile artigianato linguistico e retorico. Cose alla portata di tanti, ma il cui amalgama, come la buona maionese, riesce a pochissimi.
Credo che l’essenza della conflittualità narratologico-esistenziale che sentivo verso Eco fosse la cosa che più mi avvicinava e mi legava a lui. Mio “maestro” nel mondo accademico era stato il più anziano Luciano Anceschi (poi Starobinski, Steiner, Derrida…), ma Eco fu un riferimento costante. Per esempio mi sentivo sempre un po’ più a sinistra di lui – ma, come disse una volta un’amica poetessa, la parola Eco era in Italia come Kennedy negli Usa, non la si poteva contraddire.
Che lo volessi o no avevo compiuto scelte diverse di natura, non solo di grado, anche se non sempre ero stato consapevole che si trattasse di scelte. Avevo scelto via via la trasgressione, l’intransigenza, l’ombra, il wild side, la riserva indiana, l’anomalia culturale, la non-appartenenza, l’ascetismo e alcune altre qualità che negli ultimi anni associavo al concetto di “fantasma” (ma avrei anche potuto dire di homme de lettres), compreso l’eventuale non-successo (o non neg-ozio) e la stima di pochi, uno dei quali però doveva essere Eco.
Anche il contesto in cui ho appreso la notizia della sua morte è stato speciale. Il 17 febbraio avevo finito di svuotare l’appartamento sopra Trastevere in cui vivevo da dieci anni. Trasloco: un viaggio senza ritorno, uno spogliarsi senza merito né ricompensa – e mai come questa volta. Tutte le mie cose, libri soprattutto, destinate a una casa in ristrutturazione nel centro di un paesino che avevo eletto a home, sarebbero rimaste a lungo nel magazzino dei traslocatori a Roma, perché la casa d’arrivo non era ancora pronta, e non la sarebbe stata per molto tempo. (È in quel borgo medievale che scrivo queste frasi, seduto sulla terrazza che si sporge sulla valle di un fiume e una montagna, pur avendo a pochi metri la torre dell’antica cattedrale. I lavori non sono finiti, e vivo circondato da scatoloni e mobili avvolti nella carta gommata, insieme a un Labrador di nome Dora che ha compiuto un anno).
Mentre i miei libri erano dunque scomparsi come tutto il resto, e mi rassegnavo a vivere non solo spaesato (anzi “appaesato”, in un luogo in cui ogni mio gesto viene osservato, memorizzato e tramandato a tutti gli abitanti in un batter d’occhio), ma come i saggi nel cliché della saggezza, cioè con poco o niente, realizzando che nulla è indispensabile, tutto è anzi superfluo (tranne il computer portatile); mentre insomma vivevo questa esperienza di per sé sufficiente a porsi interrogativi esistenziali radicali, ecco che il giornale, ma prima ancora Internet, mi schiaffava sotto gli occhi la morte di Umberto Eco, uno che col morire, diciamolo, sembrava non c’entrare niente (anche di questo, della sua vitalità, bisognerebbe parlare). A Internet mi connettevo seduto a tavolino nel bar della piazza. Il web era la mia biblioteca, ma non avevo nessuno con cui parlarne.
Qualche mese prima del trasloco mi ero separato dalla donna con cui ho trascorso gli ultimi quindici anni e condiviso ogni pensiero e sentimento, anche il più informe. Senza di lei mi sentivo solo. Potrei divagare a lungo sul mistero della fine dei rapporti e i suoi corollari, per esempio l’interruzione dell’ascolto, il fatto che improvvisamente non ci sia più non dico un darsi ma un dirsi, un dire – e non si capisce se si mentiva prima, nel condividere tante parole cessate di colpo, o si stia mentendo dopo, nella lontananza, o se è sempre tutto un gioco. Comunque sia, già il fatto che una riflessione sulla scomparsa di Eco rischi una deriva autobiografica e per di più sentimentale, la dice lunga sulle nostre differenze narratologico-esistenziali. (Ma in fondo è proprio questo che volevo sommessamente indicare, non per valorizzarlo, ma per distinguerlo. Era stato Eco, dopo aver letto il mio romanzo H. P., a definirmi allegramente “un nevrotico spaccato”).
Chi sono io, chi sei tu, chi ero prima e chi sono adesso, come è possibile dire io senza un tu – sono alcune frasi e domande che la cessazione (o sospensione) del rapporto con S. mi ha fatto scrivere a iosa, e che riempirebbero qualunque testo di un caos frammentario ma in fondo omogeneo. (Ma omogeneo a che cosa?).
Le parole e i libri, oltre che dall’idea della morte, ci distraggono dalla solitudine e dall’amore, da quello che ci ostiniamo a non capire e a voler capire con la mente – e proprio per questo a non capire di nuovo, viziosamente e forse definitivamente.
Mi stavo insomma quasi rassegnando a una vita di sobrietà, quasi un ritiro alla Montaigne, segno di accettata “maturità”, quando è avvenuto l’unanime lutto per la scomparsa di Umberto Eco. Su Internet circolò un video in cui lui, seguito da una telecamera, passeggiava in casa sua lungo una labirintica, interminabile libreria. È noto che Eco fosse bibliofilo e collezionista, oltre che erudito e onnivoro lettore. Ma quella peripezia tra le pareti di libri che non finivano mai mi dava un senso di soffocamento, sintomo della mia claustrofobia. Il malessere che provavo mi sembrava addirittura rispecchiarsi nell’espressione di Eco nel video, non sorniona e un po’ blasée come d’abitudine, ma spaesata. Punto d’arrivo (e di sollievo) di quella passeggiata era una semplice, geometrica, quasi ascetica scrivania, pur essendovi anche lì sopra dei libri.
Vista dopo la notizia della sua morte e lo sbigottimento che produsse, la contagiosa insensatezza di quel video riuniva in un solo gesto il girare a vuoto, la coazione a ripetere, la vanità del collezionismo e la “vertigine della lista”. Confesso che mi ha fatto ricordare un’osservazione di Eco che lessi da ragazzo sulla spettacolare insensatezza delle partite di calcio: quegli uomini in mutande che corrono dietro una palla, diceva più o meno, sono la prova della non esistenza di Dio (o della sua damnatio memoriae nei nostri confronti). Nell’esaltare la quantità di libri della sua biblioteca, il video falliva necessariamente lo scopo qualunque esso fosse, perché il messaggio che arrivava era essenzialmente che i libri non (ci) salvano la vita, al massimo (ci) distraggono dalla necessità della morte.
(Mi sono chiesto in seguito se visitare e mostrare l’atelier di un artista morto, con tanto di pennelli, matite, bozzetti, disegni, fogli, tele, oggetti e quant’altro, intatti come se fosse uscito a comprare le sigarette, un po’ come è accaduto all’atelier di Giorgio Morandi a Bologna – una specie di cristallizzazione pompeiana della creatività e quotidianità di un artista – darebbe la stessa impressione di sgomento; rispondo che invece no, affatto, perché i libri non sono pennelli, non sono nemmeno i propri quaderni o i manoscritti, i libri sono strumenti e oggetti di consumo che anche un non scrittore (perfino un non lettore) può possedere a migliaia. I libri sono oggetti che pretendono di prolungare e a volte perfino di sostituire o supplire il mondo e la propria vita; e in questo senso i libri (che chissà quando sono stati scritti, ma fosse anche ieri o stamattina il loro autore potrebbe sempre essere già morto quando li leggiamo, poirché ogni scrittura è per definizione testamentaria) sono ancora di più una fuga, una specie di palliativo o farmaco per l’insostenibile consapevolezza della morte. Cioè della vita.
Pochi ne erano consapevoli quanto Eco. Sto leggendo solo adesso un suo libro affascinante e buffo, La misteriosa fiamma della regina Loana, la cui trama rende godibili proprio questi argomenti. È la storia in prima persona di un uomo assai colto che si sveglia da un coma e non ricorda niente di sé e del proprio vissuto, ma conserva intatte le conoscenze acquisite, cioè letteratura, poesie a memoria, cultura scolastica, perfino slogan e frasi fatte. Ricorda cioè soltanto la “memoria semantica”, ma ha rimosso quella emozionale, autobiografica e soggettiva, pre-verbale: metafora dell’alienazione di chi ha sostituito il corpo fisico con un corpo di parole, e per il quale i libri sono protesi con cui affrontare la vita. Metafora dell’intellettuale che parla e parla, in definitiva, per tacere. E non dimentico l’umorismo (irresistibile anche a lui stesso) di Umberto Eco, quando per esempio evocava alla fine di una riunione di lavoro, giusto un attimo prima di congedarsi, come se si trattasse di una questioncella teorica o lievemente burocratica: “Ci sarebbe poi da parlare di quel problemino della morte…”.
Le battute di Eco sono innumerevoli e leggendarie. Se la sua giocosità fosse stata sintetizzabile o convertibile in energia, avrebbe fatto funzionare una fabbrica di medie dimensioni. Ma né il suo talento nel cazzeggio colto né la sua mobilità e mondanità intellettuale erano ostacolo a un’accoglienza e comprensione della poesia in tutte le sue forme, anche quella del silenzio. E improvvisamente credo di capire adesso un altro aspetto, forse definitivo, del mio lutto: Eco era la persona che io, come tanti, per un lungo periodo della mia vita volevo divenire. Non “essere”, si badi, ma proprio divenire, in un processo lento e possibilmente interminabile, un viaggio senza destinazione. Aspirazione che contempla il senso del riparo di cui dicevo sopra – un riparo dell’essere e dall’essere. Adesso che era morto non potevo più fingere, né simulare né soprattutto dissimulare questo viaggio, questo processo. Ero nudo, come in una situazione d’infanzia. Ma ero solo me stesso in un mondo che pretende che io sia già da tempo un essere compiuto. Adesso che Eco non c’era più, dovevo forse essere io l’adulto, o uno degli adulti – lo steccato, o uno degli steccati?
Con tutto il suo successo cosmopolita, anzi proprio per questo, la battuta secondo me più divertente e sballata di Eco non era sua, ma involontaria e indirizzata a lui, anche se suppongo sia stato lui a riciclarla. È un aneddoto che si svolge alla stazione di Alessandria, dove Eco era nato e si trovava di passaggio. Mentre sta per prendere il treno s’imbatte in un vecchio compagno di scuola che lo apostrofa con stuporosa svogliatezza di provincia: “Ciao Umberto. Cosa fai, parti?”
La notizia, per quella persona, era che Eco – che non era solo docente regolare a Bologna e a New York, ma conferenziere in tre quarti del pianeta – avesse il capriccio di allontanarsi, anche solo per un giorno, da Alessandria.
Poco dopo la morte di Eco sono partito per l’India, precisamente per l’Uttarkhand, che si estende in quella parte dell’Himalaya in cui sorgono le Sorgenti del Gange, sacro fiume che è in realtà una Divinità. Per vedere quell’Origine du monde ho tra l’altro percorso a piedi una ventina di chilometri di una mulattiera con vertiginosi strapiombi che dai 3000 metri di altitudine sale fino ai 4000. Era un pellegrinaggio programmato da tempo, carico di ignoto e di incanto. Questa “risalita” è stata una delle esperienze meno libresche della mia vita (per farla i libri non servono a niente, nemmeno le poesie di Juan de la Cruz) e proprio per questo, per me, così faticosa e necessaria.
Sono tornato da poco, in quei mesi è come se mi fossi dimenticato tutto. Come se tutto il mio passato si fosse squagliato come un gelato tutti frutti spiaccicato per terra, a disposizione delle leccate dei cani. È un oblio che si dovrebbe coltivare, innaffiare con cura e far crescere come una pianta appena interrata: non è una perdita ma un travaso, un rinascere. Invece eccomi qui a ricordare, anche se un po’, lo ammetto, faccio fatica a incollarmi al mio io precedente…
Un’amica ha aperto a caso un libro che giace da mesi sul mio tavolo e ha letto a voce alta questa frase:
«Il pellegrino va “lassù” solo per andarvi, per “nessun altro scopo” – e se qualcuno nutre il desiderio segreto di acquistare “meriti” (punya), ne è subito frustrato. Il vero pellegrino interrompe tutti gli impegni e le attività che ritiene “importanti” nella propria vita e non è nemmeno sicuro di essere in grado di riprenderli dopo il viaggio».
È tratta da un libro postumo di Raimon Panikkar sul concetto di “sorgente” e sul monte Kailash, ma la cosa curiosa è che l’amica non ha letto questa frase pensando al mio viaggio alle Sorgenti del Gange, ma al trasloco nel paesino dell’Umbria dove sto scrivendo queste righe, e a cui mi lega solo l’amicizia con una comunità di persone che seguono in allegra devozione gli insegnamenti scomodi di maestri invisibili & Creature Celesti. Tutte cose di cui teoricamente avrei ritenuto, forse a torto, di non poter parlare facilmente con Eco (ma per il futuro sono più ottimista).
La mia vita attuale sembra agli antipodi della vita intellettuale, ma mentirei se dicessi che non era prefigurata da sempre nella mia “carriera” (parola che significa, ricordiamolo, “strada per carri”, metafora della vita come via). Ma non è questo il luogo per approfondire questo tema.
Se questo fosse un racconto finirei dicendo che la verità vera di me, quando è morto Eco e mi sono sentito così stordito e “solo”, è che in quel periodo volevo ritornare a casa, ma non sapevo bene come. Il fatto stesso di scrivere mi turbava: scrivere non significa forse che vivere è insufficiente? E come è possibile che la vita, che è tutto, sia troppo poco?
Provavo un bisogno disperato di tornare: ma dove, in quale casa se provavo nostalgia anche quando a casa io c’ero? In una casa più casa?
Il desiderio amoroso, la mancanza, la solitudine, il sentirsi traditi, il voler essere, mi sembravano solo maschere di un dolore più elementare e profondo, più vergognosamente indicibile, quello di non riuscire a tornare a casa: a un’intimità senza forma né misura, ma tutt’uno con l’idea, anzi il sentimento, di una felicità piena. Niente di psicologico, no. Niente a che fare con l’utero, il complesso della “madre morta” o l’infanzia perduta. Era un anelito misterioso eppure celebrato e ripetuto come un mantra da tutta la storia della letteratura, vale a dire la storia dell’umanità: ritrovare la strada dopo essersi perduti, ritornare a casa. Lo smarrimento, l’assenza, una vaga infelicità, era lo stesso tipo di ottundimento psichico offerto dalle droghe in circolazione. Essere così pieni di sonno da non sapere compiere il salto quantico che conduce al Divino.
Scoprivo in realtà che nel mio anelito non ero diverso dagli altri, che tutti anzi condividevano, con minore o maggiore consapevolezza, questo desiderio (anche l’autore di Il nome della rosa).
C’era un altro pensare, forse esisteva anche un’altra scrittura. (È per grazia divina che si pensa al Divino. È per grazia di Dio che ti viene in mente Dio).