(L’Unità, 15 -1-2005)
Che qualcosa si sia spezzato, o quanto meno profondamente modificato nel rapporto tra gli intellettuali e la politica, è ormai ovvio. Meno ovvia è la qualità di questo scollamento, o trasformazione. Trent’anni fa, di fronte al primo vistoso marketing intellettuale (quello dei “nouveaux philosophes”), Gilles Deleuze riassumeva nella formula “giornalistizzazione” degli intellettuali quel fenomeno di mediatizzazione e banalizzazione delle idee che costituisce oggi il “pensiero da giornale”, o da tv: una retorica populista e grossolana fatta di “opinioni” asservite agli scopi pubblicitari del potere di turno. Più esse sono deboli e inconsistenti, indistinguibili da affermazioni rozzamente ideologiche, più il pensatore, pardon l’opinionista, si dà importanza gonfiandosi come soggetto dell’enunciazione, dicendo “io io io”. E tuttavia nessuna nostalgia è possibile verso la forma e i modi dello scrittore engagé, alla Jean-Paul Sartre (o all’Emile Zola), ovvero quel modo di fare politica, anche nobile e generoso, che non passa attraverso le forme dell’impegno linguistico specifiche allo scrittore, ma piuttosto, grazie alla rinomanza delle sue opere, lo mette al servizio dei diritti degli altri. Il rischio di un umanitarismo dall’alto, unito a una certa posa della protesta, era assai evidente a chi, come Christan Salmon, ha fondato, e per lunghi anni coordinato, quel Parlamento degli Scrittori, sito a Strasburgo, che si adopera da oltre dieci anni all’aiuto concreto di scrittori perseguitati e in esilio, oltre ad affermare, in una pluralità di voci e di modalità, una politica degli scrittori in quanto scrittori. Un libro appena pubblicato, una conversazione tra Joseph Hanimann e Christian Salmon, dal titolo deleuziano Divenire minoritari, offre l’occasione di fare non il punto, ma la linea, di “una nuova politica della letteratura” (che è il sottotitolo del libro). Ispirato a Deleuze si rivela tutto il libro, un dialogo saltellante e proliferante, eteroclito e farcito di intelligenza, che tracciando la storia dell’utopia più romanzesca degli ultimi anni – un “parlamento” degli scrittori! – rivendica come politica ciò che oscilla tra il silenzio (quello di Samuel Beckett, per esempio) e la polifonia del romanzo – quello che da Cervantes a Salman Rushdie è capace di fronteggiare l’urto della realtà grazie alle finzioni.
Nato per difendere gli scrittori dalla censura – spesso giunta all’omicidio, e non solo in Algeria o nell’Iran khomeinista – il Parlamento degli Scrittori, e prima ancora il Carrefour (crocevia) des littératureseuropéennes, si è ritrovato a “disegnare una geopolitica dell’esilio”, realizzando il più pragmatico dei progetti: una rete di “città-rifugio” (l’espressione si trova nella Bibbia), ovvero luoghi di vita e di lavoro capaci di “ridare diritto di cittadinanza ai creatori colpiti da ostracismo, spezzare il loro isolamento creando attorno ad essi nuove solidarietà, inventare nuove reti, farsi carico della difesa non solo degli individui ma anche delle loro opere, favorendo letture, traduzioni, diffusione”. Una micropolitica, certo, ma anche – per i politici di professione – il suggerimento che, volendo, anche delle municipalità possono realizzare idee politiche indipendentemente dal governo nazionale, sulla scia delle città medievali che, spesso più liberali degli Stati, “accoglievano chi era stato bandito e proteggevano chi era minacciato”, da Dante a Voltaire. Dal 1992, anno in cui Salman Rushdie fu presentato a sorpresa al cospetto del sindaco di Strasburgo, oltre cinquanta città in Europa, America Latina e Stati Uniti sono entrate nella rete, offrendo soggiorni a scrittori e artisti provenienti da una pluralità di Paesi, dall’Afghanistan e l’Algeria allo Yemen e lo Zimbabwe. Ma a questo concretissimo programma si affianca la rifondazione di “uno stato mentale”: come dice Salmon, si tratta di “riconquistare nuovi territori liberi, zone franche per il pensiero e la libera creazione”, consapevoli che, come nella persecuzione più incredibile degli ultimi anni, la fatwa contro Salman Rushdie, sono il libero gioco dell’immaginazione, e la forma linguistica irriducibilmente anarchica e irriverente del romanzo, ciò che ogni totalitarismo vuole colpire e annullare. Così, se Edward Said parlava di “Intifada dell’immaginazione”, Christian Salmon invita a ripensare, a proposito del romanzo I versetti satanici di Rushdie, che non si è mai trattato di rivendicare una ”liberta d’espressione”, e anzi questa giuridizzazione della protesta finiva per fare il gioco dell’accusa, “negando l’idea stessa di uno spazio letterario vero e proprio, di un linguaggio narrativo che non ha le stesse implicazioni penali o morali di un’opinione politica o religiosa espressa nello spazio pubblico”. “Quanto più si dimenticava la letteratura a proposito di Rushdie, tanto più la fatwa diventava accettabile, e Salman Rushdie sospetto”. “Se osserviamo le coorti sinistre degli islamisti radicali o i fondamentalisti americani – dice ancora Salmon – se ci raffiguriamo tutti questi combattenti dell’ordine morale, vediamo che hanno un punto in comune: sono di una serietà assoluta e di una cupezza totale”. Ecco il programma politico degli scrittori: rivendicare la libertà, la fecondazione eterologa del gioco linguistico del romanzo, del carnevalesco, del parodico, Rabelais, Gogol, Kafka e Rushdie tutt’insieme, in un mondo dove la censura non si esercità solo nell’impedimento, ma nell’annullamento, attraverso la banalizzazione e il dominio economico che impone gerarchie estranee alle parole “letterarie”, e che nelle prestazioni televisive degli intellettuali di oggi realizza il più antiletterario dei programmi, se non l’assasinio della finzione narrativa. “L’Occidente – dice Salmon – feticizza la libertà d’espressione al apri di qualsiasi altra merce, dopo averle sottratto ogni significato, ogni traccia di umanità”.
Siamo agli antipodi delle “opinioni” che dicevamo sopra, strumento di consenso invece che di critica, di accesso al banchetto di chi comanda, non fosse che per raccogliere briciole. “L’intellettuale mediatico – dice Salmon – è un intellettuale domestico, mimetico come un camaleonte, la cui sola giustificazione storica è di occupare lo spazio dell’arte e del pensiero in un mondo senz’arte e senza pensiero”. Eppure c’è da chiedersi “come mai l’atto solitario, più indipendente e sovrano, il più autentico, il meno soggetto alla pressione sociale, alle convenzioni, alla morale, è diventato l’atto più compromesso, il gesto più convenzionale, il momento di suprema collisione dello spirito con il tempo in cui viviamo?” Per questo rimpiangiamo, invece dell’intellettuale “impegnato”, un’altra resistenza, diversa di natura e irriducibile: l’intransigenza di Flaubert, il mutismo di Beckett. “Ricordo – dice Salmon – quando Danilio Kis mi parlava di che cos’era diventata per lui quella che chiamiamo ispirazione. Non uno stato di grazia, semplicemente l’eccezionale assenza di disgusto per la letteratura”.
Non basta denunciare l’esistenza di un regime, che è comunque sempre prima di tutto linguistico, non basta neppure essere gendarmi del vocabolario, come dice anche Salmon citando Klemperer. Occorre preservare e affermare nuovi spazi, sperimentare usi plurali e affrancati della lingua, utopie e programmi irriducibili al comando e al dominio economico-pubblicitario. Una politica della letteratura, e forse qualsiasi politica, significa “sottomettere ogni ideologia al rischio della letteratura”. Sottometterla al rischio dell’ironia e della sua verità immediata, semplice e cristallina, di cui ancora Salman Rushdie, per anni presidente del Parlamento degli scrittori (seguito dal nigeriano Wole Soyinka e dal canadese Russell Banks), anche negli anni più bui fu portatore esemplare. Per questo concludiamo con alcune risposte di Rushdie in un’intervista con Joseph Hanimann:
Se il Parlamento degli scrittori fosse un edificio, quale ne sarebbe l’architettura? “Un’architettura impossibile da realizzare”. Il suo sito ideale? “Le città invisibili di Italo Calvino. Bombay. Oz”. Sul tetto, una bandiera? “Su di essa dovrebbe esserci l’alfabeto”. Quale personalità le sarebbe piaciuto invitare a parlare al Parlamento degli scrittori? “Valmiki. Vyasa. Omero. Cervantes. Shakespeare. Nessuno di loro era disponibile”. Può descrivere il popolo sovrano in nome del quale operate in parlamento? “La specie umana”.
Beppe Sebaste