Si è inaugurata oggi al Chiostro del Bramante a Roma (ai piani inferiori, sotto la mostra di Chagall) la mostra “Noi diamo [+] senso”, con le opere di tre artisti accomunati dall’esperienza dell’ospedale psichiatrico. La mostra, promossa dalla Comunità di Sant’Egidio, resterà aperta fino al 19 luglio. Presentata in parte l’inverno scorso in un padiglione dell’ex Manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma, approderà il prossimo autunno al Museo MAXXI, in una versione più ampia e con nuovo allestimento (sempre di César Meneghetti). C’è anche un bel catalogo, un libro edito da Maretti, con testi dei curatori e uno del sottoscritto (o soprascritto), che ha da tempo l’onore di essere un amico della Comunità di Sant’Egidio e dei suoi laboratori artistici. Qui di seguito il mio testo, “Elogio dell’evasione”
ELOGIO DELL’EVASIONE
Cammino con Cristina Cannelli (della Comunità di Sant’Egidio) nel parco del comprensorio chiamato Santa Maria della Pietà, un enorme spazio popolato da pini, abeti, palme, platani, cedri e molti altri alberi di cui ignoro il nome. Ma la parola MANICOMIO si staglia ancora maiuscola sulla facciata dell’edificio principale, di fronte all’entrata. È così grande che ci siamo persi, vagando tra la trentina di padiglioni in stile vagamente coloniale, molti dei quali chiusi e fatiscenti, che ospitano uffici e ambulatori della Asl, associazioni di assistenza domiciliare, uffici municipali, guardie mediche e veterinarie, etc., oltre al bellissimo Museo della Mente.
Nel caso si scordasse dove ci si trovi, distratti dalla giornata di primavera in cui la natura risplende libera in tutte le sue forme, cartelli didattici raccontano la storia di questo luogo di contenzione inaugurato nel maggio 1914 dal re Vittorio Emanuele III°. In questo grande “villaggio manicomiale”, dice uno, che ospitava i padiglioni dei “pazienti tranquilli, sudici, semiagitati, agitati”, non si praticava solo l’elettroshock, ma c’erano anche una colonia agricola e laboratori artigianali in cui sperimentare l’Ergoterapia, nata nell’ambito della “cura morale”. Le attività non retribuite dei malati avevano cioè lo scopo dichiarato di far loro acquistare, tramite il lavoro, “il valore e le regole del mondo dei sani”.
Ci sediamo su una panchina, metà all’ombra e metà al sole. Su quella davanti a noi stanno un uomo anziano e sognante e il suo badante extraeuropeo, il passaporto dell’anziano in mano: una sosta all’aperto prima di andare in uno dei padiglioni a compiere un rituale burocratico. Alcune persone con la divisa da giardinieri tagliano l’erba nel prato vicino, producendo un ronzio quasi dolce. Dai loro gesti morbidi e rilassati indoviniamo che si tratta di operatori sociali e disabili mischiati. In questo luogo dove la natura si è presa la rivincita sul suo precedente addomesticamento, un tempo era costretta in esigui giardinetti, ciascuno limitato al padiglione di pertinenza e recintato con rete da pollai – come ricorda Giovanni Fenu[i], che qui fu ricoverato da ragazzo.
Le reti per i polli evocano le gabbie, la prigionia, il bisogno di evadere (“non volevo la libertà, volevo una via d’uscita” enunciava emblematicamente Franz Kafka). Evocano anche le parole luminose di Alda Merini, poetessa con esperienza manicomiale, che Cristina ricorda quasi a memoria: «Ma il giorno che ci apersero i cancelli, che potemmo toccarle con le mani quelle rose stupende…».
È strano, ma a me le reti per i polli, lo confesso, fanno venire in mente invece le lezioni su arte e design di Bruno Munari a Cambridge, quando faceva esempi di una creatività alla portata di tutti, dal tetraedro del cartoccio del latte alla nervatura a esagoni della foglia di fico d’India; quando insegnava a osservare la natura e a imitarla nei suoi processi creativi, non nelle forme finite ma nelle sue strutture. E natura, diceva, era anche la rete a rombi dei pollai.[ii] Non è l’arte in effetti la libertà di fare uso di tutto, giocare con tutto, scoprendo che non esistono materiali sterili?
“Avevo dalla parte mia l’arte e ho superato tutto […] mi salva l’arte, mi ha salvato l’arte”, ha detto ancora Giovanni Fenu ricordando il suo internamento.
L’arte è anche evasione, e l’evasione, scriveva Emmanuel Levinas, nasce da un bisogno di eccedenza: eccedere ciò che ci trattiene, anche la nostra identità, tutto ciò che è sentito come prigione da cui occorre uscire. È un viaggio che crea la sua strada facendola, una deterritorializzazione. È Marco Cavallo ha rotto il muro di Roberto Mizzon, che prolunga la memoria storica nel mito evadendo a colori con coda e criniera, e spicca il volo nell’azzurro; è l’inaugurazione di nuovi spazi coloratissimi, come Il parco oltre il muro di Annamaria Colapietro, o la Gabbia in legno di Mizzon, vuota e osservata da fuori, con sguardo estetico e curioso, da una ragazza down. Al contrario della sufficienza di sé, della conferma di sé a se stessi, l’evasione è un’uscita da sé, è una trascendenza.
Guardiamo il padiglione, un tempo adibito a mensa del manicomio, dove l’inverno scorso, nel centenario del Santa Maria della Pietà, si svolse la mostra di Annamaria Colapietro, Giovanni Fenu e Roberto Mizzon, tre artisti che frequentano i laboratori della Comunità di Sant’Egidio e hanno un passato di internamento per presunte disabilità, due dei quali proprio al Santa Maria della Pietà. Qui, nell’ampio e alto salone attiguo all’ingresso, si stagliavano i loro primi piani nelle video-interviste realizzate da César Meneghetti in cui raccontano la propria vita.
Raccontare se stessi per diventare liberi, sviluppare consapevolezza del senso narrativo dell’esistenza: se l’arte da decenni ha scoperto il valore estetico della testimonianza e dell’archivio, è anche per questo. Ma né Annamaria Colapietro né Giovanni Fenu hanno potuto vedere le loro cartelle cliniche di questo vecchio manicomio. Il soggetto è delicato, scabroso, ma per questo importante: sapere come altri hanno raccontato la nostra storia di “anormali”.
L’insegnamento di Plotino riguardo alla bellezza, ripreso negli anni scorsi da James Hillman[i], dice in fondo la stessa cosa: non è che ci rifiutiamo di guardare qualcosa perché è brutto, ma al contrario il brutto è tale perché ci viene negato, sottratto allo sguardo, come accade per i luoghi di contenzione, le prigioni, i manicomi, i tuguri dei poveri, i luoghi detti miserabili. Bello è viceversa ciò che viene mostrato, rivelato agli occhi e dagli occhi di chi lo guarda, al limite ostentato. Vale per il racconto della vita delle persone. Una vita ha più senso se è capace di raccontarsi.
Stiamo di nuovo vagabondando nel parco, pensando a voce alta all’effetto che suscita in chi sia stato internato il tornare qui, nel luogo – ora “liberato” – di una passata ma indimenticabile reclusione, sottratti per anni alla vita normale là fuori, oltre le reti per i polli. Non solo, ma tornare nel luogo in cui le forme della tua percezione del mondo erano state giudicate inadeguate e sottoposte a censura, a “cura”, e tornarvi per esporre pubblicamente – con una valorizzazione quindi preliminare – le forme attuali in cui esprimi le tue percezioni del mondo e di te stesso, non più sanzionate ma ammirate. Non credo vi sia una poetic justice più bella di questa (in inglese si dice così la “legge del contrappasso”: “giustizia poetica”) – la “magica” trasformazione in forme estetiche e abilità artistiche delle forme e disabilità della tua identità precedente, della tua passata “alienazione”. Esperienza di una soggettivazione e una de-soggettivazione insieme: un’evasione perfetta.
Ora, dopo avere decostruito la presunta malattia o disabilità, bisognerebbe, credo, decostruire l’arte e la sua presunta abilitazione.
Mi è già capitato di dire che non c’è bisogno di essere disabili per essere disabili, né per essere artisti, e non c’è bisogno nemmeno di essere artisti per non essere disabili. “Artista” e “disabile” sono entrambi portatori di una speciale abilità, fosse anche solo l’abilità nel disporre della propria personalissima disabilità. I laboratori d’arte del Sant’Egidio (e a tutti gli analoghi sperimenti che si vanno facendo in Italia e nel mondo), oltre a decostruire le definizioni biopolitiche dell’umano (liberandole dall’emarginazione, dall’esclusione, dai distinguo e dalle riserve) contribuiscono a decostruire l’arte e il suo sistema di valorizzazione. Ci ricordano che l’opera (d’arte) più importante è la comunità umana di cui arte e estetica sono da sempre simbolo e utopia.
Ha detto Cesar Meneghetti che, quando ha incontrato le persone dette disabili dei laboratori fu colpito dal loro “essere verità”, cioè il loro essere se stessi senza le pose e le maschere sociali a cui siamo tutti abituati. Questa verità vibra nelle sue “sculture invisibili”, le sue video-interviste fatte di parole.
Il poeta Allen Ginsberg diceva che per scrivere bene il trucco è dire la verità, “parlare alla tua Musa come con gli amici, o con te stesso”. Aveva poco più di vent’anni quando fu ricoverato in manicomio. Lì conobbe un altro poeta, Carl Salomon, afflitto dagli elettroshock: “Ci interrogavamo sul senso della realtà dei dottori, se per noi fosse giusto, o se fossimo più nel giusto noi”, raccontava Ginsberg.
Un’interrogazione che era il cuore degli anni Settanta che portarono alla Legge Basaglia e alla chiusura dei manicomi. Fu in quegli anni che lessi Allen Ginsberg. La domanda adesso è: quando abbiamo cessato di porci queste domande, di interrogarci sul senso della realtà, sulla pluralità dei sensi di realtà? Quanti sono i sensi possibili?
Non si tratta solo di dare + senso, come un plus-valore semantico che si espande o, come scriveva ancora Ginsberg, “allargare l’area della coscienza” (dell’arte, del raccontabile, dell’umano); ma di dare più sensi, una pluralità numerica di sensi di realtà, di forme di vita, di storie…
“Che dici, ce ne andiamo? Torniamo in città?”
“Sì, appena troviamo l’uscita”.
[i] James Hillman, Politica della bellezza, Bergamo, Moretti&Vitali, 1999
[i] Intervista contenuta in Per grazia ricevuta, documentario Italia 2004, 37’, regia di Raul Garzia.
[ii] Cfr. Bruno MUNARI, Design e comunicazione visiva (Laterza 1968). Cfr. anche B. SEBASTE, Il libro dei maestri. Porte senza porta rewind, Bologna, Luca Sossella editore 2009 (1° ediz. Feltrinelli 1997).