Esibizionismo e scrittura

Penso da sempre che la scrittura soggettiva e autobiografica sia da incoraggiare, anche in letteratura, contro il dogma del progetto e dell’architettura romanzesca. Non è solo una predilezione per quella “irruzione della vita nello scritto”, di cui parlava Walter Benjamin a proposito delle lettere. Le Confessioni di Agostino, oltre la divisione tra laici e cattolici, insegnano che una vita raccontata è una vita che si salva, e viceversa una vita incapace di raccontarsi è una vita sommersa (o dannata). Raccontarsi accresce la consapevolezza anche della vita degli altri, aumenta la soglia di attenzione nei confronti della realtà e del sociale, e di conseguenza l’empatia, la capacità di sentire quello che sentono gli altri. Insomma, allargare l’area letteraria del raccontabile, di ciò che è degno di essere narrato, equivale ad allargare l’area della consapevolezza e della vita. Ricordo una critica intelligente di Franco Cordelli sul rischio di una retorica dell’intimo e dell’autenticità in certi romanzi incentrati sul parlare di sé, anzi una retorica dell’“autenticismo”. Il neologismo mi viene in soccorso oggi a proposito del dilagare di una scrittura che del gesto letterario ha deposto ogni responsabilità e autorialità, e il cui carattere autoreferenziale ed egocentrato è in realtà impersonale, spettacolo di un sé vuoto e intercambiabile con altri, pura marca sociale di appartenenza alla tribù degli utenti della società spettacolar-internettiana. Il teatrino dello scrivere si trova in molti blog, così come, con altre iscrizioni (immagini), su You Tube; e si potrebbe pensare che la sua immediatezza, lungi dall’essere libertà rivendicata, sia vincolo e tributo al medium da cui proviene. Diventando libro (vari editor passano in rassegna i blog per inventare qualche successo) diventa letteratura-spazzatura, come anni fa un’omonima programmazione televisiva. Cosa succede allora quando lo scrivere stesso risulta inquinato alle radici, e si trasforma in posa, restringendo e oscurando il mondo invece di dilatarlo, seppellendo perfino chi scrive sotto una serie di cliché e stereotipi che non fanno vedere né conoscere niente?
Il mio orizzonte di scrittura soggettiva (tra i cui maestri annovero autori diversissimi e lontani, da Robert Walser a Richard Brautigan) non prevedeva che l’ultima trovata del marketing editoriale fosse una versione cartacea e noiosa del peep show, il buco della serratura dei quartieri a luci rosse. Come le varianti e le imitazioni del già mediocre diario di Melissa P., che ha inaugurato il genere delle “memorie delle esperienze sessuali delle adolescenti” e simili, dando il via ad altri filoni congeneri.
L’esibizionismo di chi non ha niente da far vedere – perché per far vedere occorre prima di tutto saper vedere e avere visto, e per raccontare un’esperienza bisogna innanzitutto saper riconoscere un’esperienza, e saperla raccontare a se stessi – si incontra con il voyeurismo di chi non sa vedere, e che forse a guardare il mondo ha già rinunciato senza saperlo. Inutile dire che si tratta di successi commerciali. Inutile anche dire, almeno spero, che non sto stigmatizzando il supposto contenuto scabroso di queste narrazioni, anzi; lamento al contrario l’assenza di un contenuto, di un’emozione, di una storia di cui il mondo fosse privo prima della loro messa in commercio, o che possa fare da cassa di risonanza facendo scattare un riconoscimento nei lettori.
Mi chiedo – e qui arriviamo al nocciolo attuale della faccenda – perché le persone attualmente detenute a Perugia, indagate per un omicidio efferato (un italiano, una statunitense, un ivoriano), invece di parlare ai magistrati stendano pagine su pagine di memoriali, e li scrivano per non dire niente (stando a quanto riportano i giornali), tranne mediocrità e generalità che non rivelano niente di se stessi, né lo rivelano a loro stessi.
Amanda Knox ha scritto decine e decine di pagine che ha intitolato “My prison” (“Le mie prigioni”, traduco con involontaria citazione risorgimentale). Il suo partner Raffaele Sollecito ha anch’egli scritto in cella, col titolo più spiazzante di “Appunti di viaggio”. E così Rudy Hermann Guede. Parlano superficialmente di tutto, ma non dell’omicidio che li vede lì, in un carcere. Commentano, non descrivono. Lontani anni luce dal famoso memoriale dell’Ottocento pubblicato da Michel Foucault, Io Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella, mio fratello… (Foucault, non a caso, era specialista della formazione della soggettività).
Non c’è ovviamente solo il delitto di Perugia. Sul piano poliziesco – e se vogliamo anche sul piano della sua rappresentazione, il noir, oggi così gettonato dagli scrittori e dal pubblico – si assiste all’anomalia di imputati che sistematicamente non parlano e non confessano. Il paesaggio criminale che essi disegnano è lontano anni luce anche da quello raccontato da Simenon. Al procedimento empatico di Maigret, al reciproco sfinimento del faccia-a-faccia che il celebre commissario conduceva coi sospetti colpevoli – che approdava a un’accettazione della colpa e al racconto di sé – si è sostituita la tecnologica freddezza del Ris, le cui prove indiziarie spesso paralizzano le inchieste senza approdare a una solida incriminazione. Non si tratta di contrapporre metodi di indagine, né di svalutarne alcuno. Rilevo solo come il ritrarsi della confessione e dell’empatia anche nelle indagini poliziesche attesti un più generale dileguarsi della responsabilità, della consapevolezza, se vogliamo addirittura della famosa coscienza di sé. In fondo, il faccia-a-faccia è sparito perché pochi, oggi, sanno effettivamente guardarsi in faccia.
Sulla questione si è soffermato di recente il magistrato e scrittore Giancarlo De Cataldo. Intervistato su La Stampa ha detto cose molto interessanti, come il fatto che oggi non c’è esecrazione di fronte al male, a un assassinio, ma quasi una simpatia da spettatori: “la confessione segna l’assunzione di responsabilità, l’ammissione di una colpa. E’ il momento della catarsi. […] Lei sa chi sono gli unici che confessano oggi? Gli extracomunitari e i poveracci, gli ultimi, gli emarginati, quelli già esclusi dalla società, e che per questo non godono di alcuna comprensione”.
Le parole di De Cataldo confermano sul piano giuridico che il gesto antico della confessione – che da Agostino si tramanda fino al filosofo Jacques Derrida – non è mai consistito in un far sapere o un informare, ma in un dichiararsi colpevole che è tutt’uno con la fondazione del proprio “io”. Le prime pagine del celebre libro di Agostino sono la didascalia di come un io, già a livello di pronome, possa fondarsi solo grazie all’Altro (che è Dio), oppure un altro, che è la relazione sociale. Il tu, lo si voglia o no, viene sempre prima di io, e lo crea. Ma solo i poveri e i reietti, oggi, si comportano come persone, come soggetti.
Per tornare ai “memoriali” di oggi, leggiamo in essi una scrittura soggettiva priva di soggetto, il monstrum di una soggettività impersonale. Un io vuoto, una non-persona. E’ la forma corrispondente alla nostra civiltà? La domanda che mi pongo è specifica: perché un anaffettivo si dedica alla scrittura? Che cosa è diventato oggi lo scrivere se coincide con un gesto esibizionistico e auto assolutorio equivalente a un filmato fatto col telefonino, al testimoniare il proprio passaggio con un graffito sul muro, a lasciare una traccia, una qualsiasi? E’ il mondo dell’iperrealtà di cui parlava decenni fa il sociologo Jean Baudrillard, quando denunciava la sostituzione della realtà con una sua copia, un simulacro. Ultima maschera del capitalismo delle merci, dell’alienazione della specie. Anche l’arte e la letteratura si estinguerebbero in un generico lasciare delle tracce (e la pulsione di morte inerente a quest’attività è materia per gli psicanalisti: mai come in questo periodo ci si sente in via di estinzione).
I salotti televisivi trasmettono in tempo reale non solo i protagonisti di delicate istruttorie in corso, ma i colpevoli (o comunque i condannati) facendone star mediatiche. Non c’è porzione della vita vissuta che non sia funzionale a una replica esibizionistica, a consumo di utenti a loro volta replicanti, e tanto meglio se questi atti reali/virtuali contemplano la crudeltà e l’orrido. Anche i detenuti di Perugia avevano lasciato tracce e iscrizioni (esibizioni) di sé, anche in pose “assassine” (per scherzo), sul ricettacolo You Tube. Jean Baudrillard, che disegnò la nostra epoca ben prima dell’avvento dei reality, del virtuale, del Grande Fratello, delTruman Show e di You Tube, scriveva “Un tempo avremmo vissuto ciò come un controllo poliziesco. Oggi lo viviamo come una promozione pubblicitaria”. E continuava, in un libro pubblicato nel 1995 intitolato Il delitto perfetto (sottotitolo, “La televisione ha ucciso la realtà?”): “In ogni modo, la cinepresa virtuale è nella testa. Non c’è bisogno di un medium per riflettere i nostri problemi in tempo reale: ogni esistenza è telepresente a se stessa”.
Nelle sale in questi giorni c’è un bel film di Gus Van Sant, Paranoid Park. Racconta il senso di un colpa per un crimine commesso di un ragazzo, isolato dagli adulti (“pensano solo ai soldi”, dice un amico), e che affida alla scrittura il racconto della propria colpa, della propria azione. Nessun esibizionismo: scrive su una panchina solitaria e, una volta ultimato il racconto, brucia i fogli all’aperto. Forse il vero scrivere è questo. Più simile al frastuono dell’albero che cade nella foresta, al profumo della ginestra sulla lava che nessuno può odorare, che non a quell’altra impermanenza senza qualità, la giostra dell’essere come puro apparire.

Beppe Sebaste

(uscito su l’Unità , 19 dicembre 2007)