“Pietre che cantano” (2003)
Tre giovani africani, due uomini e una donna, spiccano nei loro abiti a colori mentre camminano dolcemente tra l’erba alta e selvaggia, e si avvicinano a una casa e una chiesa abbandonate. Ne guardano affascinati le facciate superstiti e scrostate, le mura pericolanti, i tetti sfondati, ciò che resta di un affresco ormai color pastello, un campanile miracolosamente eretto di fianco a volte distrutte, sullo sfondo delle campagne spopolate della valle del Po in Emilia-Romagna. Sembrano tre delicati turisti di un altro pianeta che visitano le vestigia di una civiltà disfatta.
La scena, che non stona in questi giorni di celebrazione della memoria – memoria di una violenza che ha deturpato forse per sempre l’idea stessa di memoria – è tratta da Visioni di case che crollano, un film-documentario di Gianni Celati dedicato a ciò che sopravvive della “vecchiaia” nel paesaggio. Al film partecipano altri amici, tra cui Aldo Gianolio e Davide Benati, e soprattutto l’intensa voce narrante di John Berger, scrittore inglese che vive da molti anni sulle montagne della Haute-Savoie, nei pressi di Ginevra, e di cui ricordiamo, tra i suoi libri spesso dedicati al guardare, almeno il bellissimo E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto (tradotto da L’ancora del Mediterraneo).
Le case crollanti sono quelle che qualunque automobilista che passi per la via Emilia, per non dire delle strade secondarie, vede da ogni parte in ciò che resta della campagna: coloniche un tempo piene di vita, volumi meravigliosamente capaci e sapienti, mattoni che sapevano assorbire la luce e il calore, e che oggi appaiono come relitti o come “musei all’aria aperta, un po’ come a Pompei” (come si dice nel film). Con inquadrature che rendono omaggio allo stupore e all’amore del mondo esterno, soprattutto quello più inerme, delle fotografie di Luigi Ghirri, il film mostra lo spazio disabitato intorno alle grandi case crollanti (tra il fragore dei camion che per un decimo di secondo rendono le immagini astratte e pop). “C’è qualcuno che le guarda?” – chiede una voce nel film. “Secondo me non le guarda nessuno”, risponde uno che abita lì vicino. E le altre risposte della gente riguardo ai ruderi, nota qualcun altro, sono in genere un po’ false: fa loro velo un atteggiamento culturale, concettualizzante e astratto, che copre le difficoltà del linguaggio e dello sguardo di fronte a qualcosa che in realtà si rimuove perché dà solo tristezza. Le si rifiuta come si fa con la vecchiaia, coi corpi (e la mente) degli anziani. E allora quelle case in rovina, nelle campagne anch’esse ormai invisibili, sono emblema di ciò che resiste, o che resta (è la stessa parola), come gli extracomunitari che trovano in esse rifugio. Sono diverse di natura dal make up generalizzato dei corpi e delle immagini, del linguaggio e della vita degli adulti medi, acculturati e buoni consumatori, modellata dalla pubblicità e dalla televisione. Quelle case sono disabitate e crollanti perché sono inutili, e furono sentite inutili nel momento in cui i contadini decisero di abbandonarle per le case nuove, quelle con l’acqua calda e corrente, quelle coi mobili nuovi. Quando, all’epoca delle macchine fatte in serie, vendettero il cavallo del calesse.
Immaginate la colonica di Novecento di Bernardo Bertolucci ormai disabitata e abbandonata da anni. La guerra è finita, il nemico è scappato, oppure guarda la TV, lavora in fabbrica, come i contadini un tempo tutti eroi che ora sono lì a guardare la televisione, “il naso all’in su come dei fessi” (come ricorda la voce recitante di una ex-contadina). E a ogni nostro passaggio il tetto è sempre più sfondato, i solai hanno ceduto, anche i fantasmi delle voci sono evaporati, le mura si sgretolano, ma soprattutto si nota il silenzio rotto soltanto dagli uccelli; o, se siamo vicini a una strada, dal rombo delle macchine e dei camion, così impietosamente estranei e veloci. E punteggiata da uccelli è la voce di John Berger quando, seduto a un tavolo di fronte al Po, spiega l’argomento del film (si veda il testo riportato in questa pagina). E pure è immerso nel canto degli uccelli (quel canto che suggerì a Leopardi un’idea di fratellanza) quando, passando da parte a parte una grande casa squarciata e pericolante, il narratore commosso immagina e descrive la luce, la vita, il vociare, lo spazio di un’abitare ormai sommerso, di fronte a un bosco di pioppi ordinati e tenui come i bambù delle vecchie stampe giapponesi.
Documentario contemplativo, fatto con le orecchie non meno che con gli occhi, come il valore delle apparenze imparato dai fotografi, il film mi ha suscitato molti ricordi. Quasi vent’anni fa, con lo scomparso Luigi Ghirri, Gianni Celati coordinò un pionieristico lavoro di descrizione della Via Emilia (con fotografi e scrittori), che a quanto ne sappiamo ebbe come unico precedente, almeno quanto a committenza pubblica, la descrizione del New Tennessee affidata dall’amministrazione Roosevelt non a degli esperti che sanno già tutto a tavolino, ma ad artisti che andassero a lavorare sul terreno (o “fuori dagli armadi”, come cantava Lou Reed). E riporto qui, sintesi delle intenzioni che abitavano Gianni in quel periodo, un frammento di testo dedicato a Luigi Ghirri, colui che insegnò a tutti a guardare il mondo senza l’ombra di un disprezzo. Il testo si chiama “Finzioni in cui credere”, e apparve nel dicembre 1984 sulla rivista Alfabeta: “Noi crediamo sia possibile ricucire le apparenze disperse negli spazi vuoti, attraverso un racconto che organizzi l’esperienza, e che perciò dia sollievo… Crediamo che tutto ciò che la gente fa dalla mattina alla sera sia uno sforzo per trovare un possibile racconto dell’esterno, che sia almeno un po’ vivibile. Pensiamo anche che questa sia una finzione, ma una finzione a cui è necessario credere. Ci sono mondi di racconto in ogni punto dello spazio, apparenze che cambiano a ogni apertura d’occhi, disorientamenti infiniti che richiedono sempre nuovi racconti: richiedono soprattutto un pensare-immaginare che non si paralizzi nel disprezzo di ciò che sta attorno”.
Il film di Gianni Celati non è un lamento, forse nemmeno una nostalgia, come quella politicamente alta e giusta di Pier Paolo Pasolini contro il neo-capitalismo italiano e le sue tragiche, irreversibili trasformazioni del lavoro, dell’abitare, della vita quotidiana. Come nei suoi “racconti di osservazione” (ricordiamo almeno Narratori delle pianure e Verso la foce, editi da Feltrinelli), la scelta di Gianni è una poetica rigorosa e umile, prossima al senso originario del narrare: l’epica orale, la memoria vera e viva, che si confonde con le storie. E se le storie sono anch’esse ormai un genere in via di estinzione, Visioni di case che crollano ci ricorda che l’estinzione, come l’impermanenza, è la condizione degli uomini come delle loro case crollanti: “.. e anche noi, crollanti, troviamo la nostra casa nell’aria della sera, dove essere insieme è già abbastanza”.
Beppe Sebaste
(uscito su l’Unità, 26 gennaio 2003)