(articolo uscito su Venerdì di Repubblica oggi, 12 febbraio 2016 col titolo: “Il neorealista Vittorini e il suo uomo in salsa jazz)
Autodidatta, operaio edile, tipografo, critico appassionato di cinema, traduttore in presa diretta, prima cioè che fossero valorizzati, di autori come Hemingway, Faulkner, Saroyan (la sua antologia Americana, un manifesto letterario e sovversivo, uscì nel ’42 in piena censura fascista), Elio Vittorini rappresenta ancora oggi una singolarità e un’attualità quasi provocatorie nella cultura italiana. Nato nel 1908, morto esattamente cinquant’anni fa, il 12 febbraio 1966, fu forse il primo scrittore “impegnato”, ma insofferente alle ideologie, come nella celebre polemica con Togliatti (lo scrittore rivendicava un’autonomia dalla politica, l’altro un’autonomia della politica). Fondò e diresse la rivista “Politecnico” e fu scopritore di talenti per l’editore Einaudi – uno tra tutti: Lucio Mastronardi, il maestro di Vigevano.
Oggi la riedizione presso Bompiani del suo Diario in pubblico [a cura di Fabio Vittucci, con un testo di Italo Calvino], che raccoglie scritti d’occasione tra il 1929 e il 1956, mostra la sua capacità di stimolare, forse per la prima volta in Italia, un dibattito che fosse davvero contemporaneo. Quello che importa, scriveva, è “mostrare invece che mostrarsi, far vedere quello che c’è”, ma che non si vedrebbe senza l’apporto dello scrittore. Di fatto, ben prima di Bianciardi, Mastronardi, Pasolini e la neoavanguardia, Vittorini fu uno scrittore irriducibile alle etichette, quelle stesse stupidamente in voga ancora oggi.
Vittorini è un narratore neorealista, ma visionario e ritmico come un poeta beat. Non si può leggere senza battere il tempo con i piedi, né senza commuoversi, la prima pagina di Conversazione in Sicilia, il suo capolavoro scritto nel ’37, all’indomani della guerra di Spagna. La liricità del suo realismo ha una figuralità simbolica maestosamente dantesca. Nelle sue opere c’è sempre la visione di un inferno, ma anche scorci di paradiso e, cosa più importante, di purgatorio, che è poi la vita quotidiana, questa. La sua Sicilia (così come l’America) è il mondo, e la sua condizione è la condizione umana.
Dantesco in Vittorini è anche il saper imprimere nelle parole un senso nuovo e memorabile che si deposita nella coscienza collettiva, come il tema del “mondo offeso”, e tutte le variazioni quasi jazz sul tema dell’umano – l’uomo che è “più uomo” nel dolore del bisogno e della povertà: “Non è l’uomo, nella fame, più uomo?” Quando nel dialogo con la madre (che fa le iniezioni gratis ai più poveri di lei) il narratore introduce la figura simbolica del “cinese” per dire il profugo, il povero assoluto, non possiamo non vedere con un brivido, ottant’anni dopo, la cronaca quotidiana di un’Europa sazia e disturbata dagli spettri più che umani che in essa si aggirano, fantasmi privati di tutto. Il tema dell’umano è al centro anche di Uomini e no: e mi chiedo se il titolo del celebre libro di Primo Levi sull’inferno di Auschwitz, che narra la scoperta perturbante di una “zona grigia” – l’inumano che alberga nell’umano e accomuna carnefici e vittime – sarebbe stato possibile senza Vittorini. Come scriverà nel 1946 a proposito del “sottosuolo dostoevskijano” (Diario in pubblico, p. 270), “il ‘non uomo’ è in noi”.
