Grazia (grazie) a Roland Barthes (e anche un po’ a Parigi)

Ricordo bene quel 26 marzo 1980 – ero studente a Bologna, cambiavo casa più spesso della giacca – eppure lo sovrappongo e un po’  lo confondo con l’8 dicembre dello stesso anno, forse la stessa stanza, la stessa circostanza, lo stesso cielo bianco di Bologna con venature di sole, e l’amico Giorgio Messori con cui parlarne con solerte stordimento (vivevamo questi ossimori, certo): Roland Barthes investito e ucciso da uno stupido (come è stupida la fatticità delle cose e del caso) furgoncino di una lavanderia, vicino a  Saint-Sulpice, dopo pranzo, mentre attraversava la strada– forse con la sigaretta accesa, e forse il cielo imprevedibile di Parigi era azzurro e assolato, buono per camminare; John Lennon “sparato” a New York da un ammiratore folle…

Poi con gli anni ho confuso la data della morte di Barthes con quella della nascita, ed è in prossimità di questa (il 12 novembre Barthes compirebbe cento anni) che ne scrivo qui, dopo che già da gennaio i giornali italiani (il primo fu Repubblica con M. Ferraris) hanno ingaggiato la sciocca gara a chi ne parla per primo, anche a costo di tradire la data del centenario. Su un social network ho scritto mesi fa questa “preghiera”: Vorrei che gli intellettuali lasciassero in pace Roland Barthes, visto che con i loro commenti non raggiungeranno comunque mai la sua grazia, né potranno mai goderne. Da Barthes si dovrebbe imparare soprattutto a “lasciar stare” (lasciare stare lui, intanto, invece di trattarlo come una merce improvvisamente tornata di moda), e a non ripetersi mai, non confermare mai se stessi, passare sempre a qualcosa d’altro, con pari rispetto, libertà e avventura (ditemi voi quale commentatore, in Italia, abbia oggi questi requisiti).

roland-barthes-lecture

Barthes era uno dei nostri autori, interlocutori, maestri, che ci dava coraggio e voglia di guardare ogni fenomeno culturale e linguistico e etc. con libertà, senza cercare conferme al nostro sguardo o al nostro presunto sapere; era un battitore libero proprio come John Lennon, del quale malgrado Joko Ono ci piaceva tutto, beatamente ciechi a ogni possibile difetto. Mi piacerebbe scrivere qualcosa di serio su Barthes (su Lennon ho scritto qualcosina, v. infra) ma qui di seguito ripubblico due brevi scritture, una un esplicito omaggio in forma di recensione a una mostra a Parigi su di lui, nel 2002, l’altro una riflessione sulla letteratura che svolsi sia per iscritto sia, in forma più estesa, in una lezione a Bologna, e dove Barthes è solo implicito (lo cito una volta soltanto, all’inizio), ma che non avrei forse pensato né scritto senza avere metabolizzato in parte la sua  libera e ariosa intelligenza delle cose e dei testi. Ancora una volta, mentre scopro che coi miei ultimi “romanzi” – H.P. ... in cui inventavo il non fiction novel, e Fallire… in cui ho “inventato” senza saperlo il fiction-non fiction novel – scopro che è in buona parte a Barthes (oltre che a Luciano Anceschi, certo) che devo il gusto per la libertà delle forme, per la sperimentazione; il Barthes di cui ricordo con quanto piacere (del testo e  non solo) citava la frase del film L’année dernière à Marienbad dell’amato Robbe-Grillet: “Ne leur donnez pas un nom, il pourraient avoir eu tant d’autres aventures” (“non date loro un nome, potrebbero avere avuto tante altre avventure”): frase che intellettuali e critici, soprattutto italiani (che si credono nuovi e innovativi anche se per la maggior parte del tempo giacciono statici come salme su posizione ideologiche identitarie e reazionarie), dovrebbero meditare a lungo, e soprattutto praticare.

Ripubblico dunque (tramite link) questi due testi, sepolti nel vecchio blog e usciti a suo tempo su l’Unità: A Roland Barthes in assenza (2002) e La realtà della letteratura (2008). Pubblico anche un’altra cosa, una breve prosa indefinibile dedicata a Parigi, dove nel 1980 non sapevo che vi avrei vissuto per oltre dodici anni. Il titolo assurdo sarebbe “Fenomenologia dello spirito del luogo”, è del 2003 e ne pubblicai un frammento al posto della mia rubrica domenicale su l’Unità il 22 novembre 2009, col titolo “La realtà che invecchia”.

A Rolan Barthes, in assenza (2002), cliccando qui di seguito

La realtà della letteratura (2008), cliccando qui di seguito

Tentativo di esprimere una “fenomenologia dello spirito del luogo”  – una passeggiata, questa:

…  Questa cosa insomma del vedere il mondo dal di fuori, la vita, idea che ho da quando ero ragazzo e che ritrovo oggi intatta (Parigi, 20 aprile 2003) bevendo la birra a Place de la Contrescarpe, poi attraversando la rue d’Ulm e affacciandomi sulla piazza del Panthéon (il palazzo dove ho visto l’alba un mattino di giugno abbracciato a C., quel grande spazio rosa e bianco deserto come un quadro di De Chirico), tutte le strade e le piazze di un passato tanto più remoto quanto più recente, cioè passato. E ho pensato al celebre filosofo marxista Louis Althusser quando era vivo, quando insegnava lì la filosofia prima che ammazzasse la moglie e andasse al manicomio, quando c’era un futuro e la politica nascondeva la nascita e la morte come nei giochi dei bambini, riproiettandole in massime e utopie (l’origine è la meta). Ho pensato alle parole dell’intelligenza politica, dialettiche e non dialettiche a un tempo, che riverberavano, si ripercuotevano, vibravano all’unisono delle cose del mondo, anche del traffico delle automobili (la sensazione antica, quasi fisica, della città che risuona intorno e gira vorticosa mentre leggo un libro di filosofia – le macchine i palazzi bianchi e il libro che si fa corpo, i discorsi di verità che si mettono in moto, le metafisiche, le politiche, i cortei, le bandiere, i lampi azzurri e le sirene, ogni cosa al suo posto e la sensazione della parola giusta e irrimpiazzabile, come nelle poesie, la sensazione che “è vero!” – e che cosa vorrà dire questa esclamazione?). Tutte le cose e le verità che riconosco, che risuonano e che sono un po’ come camminare per strada, anzi, camminare una strada, lo shining delle cose al loro posto, a rue Servandoni dove abitava Barthes e dove c’è una trattoria con uno splendido Bourgogne – e non so perché per anni l’immagine della persuasione e dell’eccitazione mentale che mi si formava leggendo erano i deittici “Jean-Paul Sartre” e il “carrefour de l’Odéon” visto con un agente immobiliare da un quarto piano spazioso e rumoroso col balcone intorno, o comunque su “boulevard Saint Germain” (più tardi invece era sugli alberi di boulevard Raspail, un piano ancora più alto di una casa tutta bianca dove in un’altra primavera S. mi abbracciava e mi diceva: “sembra una casa giapponese”, e l’avremmo lasciata, così, vuota e bianca; la filosofia era già meno importante, preferivo i musei, ero scettico come si conviene a uno scrittore). L’idea che le parole abbiano importanza, una consistenza fisica, che le parole smuovano il mondo – camminando a vuoto nel quinto arrondissement con le paolonie fiorite come glicini eretti e grandi come platani, grappoli viola e lilla e rosa rizzati al cielo, ho pensato: sono io o è il mondo intorno – la realtà, la storia – che invecchia e muore?…

il cielo di parigi