Molto tempo dopo (o forse molto tempo prima, non importa), ti siedi un mattino molto presto davanti a una vetrata e guardi l’oceano, sotto il cielo chiaro che piove giù compatto e azzurro come una cupola.
Anche l’immenso ridiventa piccolo racchiuso nei confini dello sguardo, perché il vedere non è solo limitato, è l’attestazione stessa dei limiti. Guardare è un esercizio che assomiglia molto, a volte, a un tentativo di erosione dei confini, un rosicchiare il perimetro di una prigione. Gli umani sono molto abili ad abbellirla, la loro prigione, sanno fare quasi di tutto con la “bellezza”.
Un’altra finestra a due ante incornicia, come un quadro concettuale, quasi la stessa immagine divisa in due – da una parte palme e alberi di cocco svettanti davanti a un riquadro di cielo e oceano azzurri, dall’altra un edificio diroccato e cadente color crema, con finestre dalle persiane sbarrate e balconi di legno rosso, mangiato dal tempo e dallo iodio. Finché ti accorgi che stai galleggiando non solo in quello che vedi, ma nella musica e nella voce ondulata (non capisci se sia un uomo o una donna) che in una lingua che non conosci dice parole che riconosci, inanellando uno nell’altro sinonimi come “nostalgia”, “incontro”, “perdita”, “desiderio”, “impermanenza”, “esilio”.
Non è la nenia da incantatori di serpenti che hanno spesso le canzoni indiane con i loro ghirigori. Quella voce che ricama l’aria con una dolcezza mortale è come un filo di fumo d’incenso che si solleva per cercare, e trovare, la luce più alta in cui dissolversi. Con gli occhi lucidi continui a guardare l’oceano, gli alberi e la casa cadente, la cui insegna stinta e seminascosta ti rivela il nome, Hotel Repos, mentre davanti a te il caffè si raffredda nella tazza.
“È una canzone molto semplice”, ti dice l’anziano cameriere.
Le cose più semplici sono le più belle, rispondi, incurante per una volta di pronunciare un cliché.
Quando torni in camera la tua donna ha già fatto i bagagli per andarsene. Vi lasciate in silenzio.
La sera ceni davanti alla stessa finestra. Di fronte l’Oceano Indiano, gli alberi di cocco e il cielo notturno. A destra la casa disabitata color panna e rosso.
Ma la cosa stupefacente è che le finestre della casa sono aperte e vi si stagliano le ombre di donne e uomini affaccendati – che parlano, camminano, stendono panni su un filo, cucinano, cullano bambini. Altre ombre allegre di bambini più grandi corrono e giocano. Resti a fissare la casa e le ombre silenziose mentre il cameriere anziano rimette il disco del mattino.
Le note e la voce che ti avvolgono come fumo d’incenso sono una preghiera, e non ti stupisce che le ombre nitide e sinuose che popolano la casa di fronte, l’Hotel Repos, siano bianche su fondo nero come nuvole di fumo d’incenso, puri fantasmi o puri spiriti.
E questa, lettore, è una storia vera.
Hotel Repos

Eliminare è una delle cose più difficili per chi scrive, ma è anche una delle cose che permette alloscrivano di essere scrittore: sei stato coraggioso.
grazie…