I quadri di Michelangelo Antonioni

Si chiama “Silenzio a colori”, e sembra la didascalia di un suo film, ma è una mostra di dipinti su carte e tele di Michelangelo Antonioni. Anche il lessico per descriverli richiama le parole con cui generazioni di spettatori hanno cercato di evocare quello che il grande regista ha narrato sullo schermo: plastici silenzi, appunto, ellissi narrative, storie costruite intorno al vuoto; l’eloquenza del vuoto, l’espressività straordinaria di inquadrature tanto più parlanti quanto più indirette, fino alla potenza del colore degli ultimi film (ma forse già l’intensità, l’evidenza del bianco e nero de L’avventura, la Notte, l’Eclisse, era una sorta di colore); la sua sottigliezza infine, “sincope del senso”, come la definì Roland Barthes celebrando Antonioni ventisei anni fa, paragonato già allora ai pittori (Braque e Matisse) e all’estetica dell’Oriente. Ovvero il suspense di immagini e storie che coglievano le realtà interstiziali, i cosiddetti tempi morti delle avventure. Esiste qualcosa di più vero?
Dal 2002, cioè dal suo novantesimo anno, nel silenzio della sua casa sul Tevere a Tor di Quinto, per nulla domato dalla malattia e dall’età, Michelangelo Antonioni passa ore e giorni a dipingere il vuoto, a disegnare altri tipi di ellissi e di curve, di pieni e di vuoti, di linee frastagliate e riccioli che sembrano calligrammi cinesi, geometrie non euclidee e coloratissime. Ha cominciato a dipingere in campagna guardando i bambini, i nipoti. Un amico gli regalò un quaderno bianco e cominciò a fare disegni col pennarello. La moglie Enrica lo incoraggiò offrendosi di aiutarlo a mettere il colore. Trascorsero l’estate del 2002 a Roma a dipingere sul tavolo, il rumore lieve del traffico fuori simile al brusio del mare, immersi nell’arancio, nel verde, nel rosa. A stendere i colori sono subentrate come assistenti Alessandra Giacinti e Monica Dabbicco, diplomata in pittura all’Accademia di via Ripetta: “Sono solo un pennello per lui, uno strumento”, dice Monica, e mi parla della concentrazione, della determinazione di colui che, pur dandogli del tu, chiama rigorosamente “Maestro”: “A differenza di me, Michelangelo non è mai stanco”. Entrambe hanno raggiunto una rara empatia nel silenzio della pittura, come testimonia il film realizzato da Enrica Antonioni: ConMichelangelo. E’ lì che ho scoperto i suoi quadri, guardando la mano anziana che traccia linee sulla tela, le istruzioni assorte e appena percettibili che dà all’assistente per scegliere e disporre i colori in un sovrapporsi di forme che suggerisce una tridimensionalità della tela. A chi fosse stupito (il regista de L’avventura divenuto espressionista astratto?), affermo che questi quadri illuminano magicamente tutto il lavoro di Antonioni. Se è vero, come scrisse Walter Benjamin, che ogni testo letterario contiene in sé tutte le future e possibili traduzioni in altre lingue, l’espressività pittorica di Antonioni rivela una coerenza anteriore a ogni categoria e a ogni facile definizione. Non ha forse detto lui stesso che “sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima”? Il celebre passaggio, del 1964, così concludeva: “Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta e misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque una sua ragione di essere”.
E’ per rendermi conto della visibilità di ciò che prima era invisibile che sono andato da Michelangelo Antonioni. E’ quasi un genere letterario la “visita all’atelier” dell’artista, ma è con apprensione, oltre all’onore per l’invito, che mi sono trovato nella casa-studio dove vive da cinquant’anni. Faccio parte, confesso, di quella generazione il cui entusiasmo per il cinema di Wenders (almeno i primi film) era in fondo un succedaneo a quello per i film di Antonioni (ero troppo piccolo per parlarne in presa diretta). Del resto anche Wim Wenders ha espresso la sua venerazione per il Maestro in un memoriale che racconta la realizzazione di Al di là delle nuvole (Il tempo con Antonioni. Cronaca di un film, edizioni Socrates). Eccomi dunque qui, di fronte alle vetrate che offrono una vista a 360 gradi, compresa la curva del Tevere e le pinete, i campi da tennis di un centro sportivo, e altre pareti coperte di libri e quadri tra cui, oltre a una delle bellissime “Montagne incantate” che il regista cominciò a dipingere negli anni ’70, riconosco le sue nuove geometrie colorate. Accanto al tavolo da lavoro noto le decine di boccette di colori acrilici (polycolor), varietà di verde, giallo, lilla, rosa, tutti i colori “freddi” e opachi che Antonioni predilige. Quindi ci sediamo fianco a fianco, e guardiamo i suoi quadri già scelti per la mostra che sarà inaugurata a Roma in settembre. Prima i grandi formati, 1m x 1,50, che Enrica e Monica ci mettono davanti agli occhi. Michelangelo Antonioni è impaziente quanto me di riguardarli.
Il primo si chiama “Cornucopia”, e il fondo color oro è l’ultima cosa che ha messo. Emergono forme azzurre, verde acqua, rosa e rosse, le sue “icone”, riccioli e altre forme a volte morbide a volte appuntite che fanno pensare a segni calligrafici, caratteri cinesi stilizzati, kangji, ma anche a una sua firma reiterata. Alla domanda se abbia influito su di lui il viaggio in Cina e il documentario che ne fece negli anni ’70, la risposta è che l’Oriente (Cina e Giappone) lo hanno sempre affascinato e coinvolto, e di viaggi ne fece parecchi (Roland Barthes, l’autore de L’impero dei segni, non aveva torto). E’ in Cina che Antonioni inventariò una serie infinita di tonalità di blu. Guardiamo ora un quadro caotico e imponente, grandi righe nere verticali, e forme dai colori delicati. Poi “Tantipunti”, un quadro dal fondo nero da cui emergono diramazioni come cactus dense di colori rossi, gialli e verdi primaverili, una primavera frizzante come una canzone di Brian Wilson. Così come “Fuocod’artificio”, esplosione di colori gioiosi, blu e verde soprattutto, su un fondo rosso-rosa. “Totem”, una superficie verde chiaro, una spazialità quasi desertica, e poi “Festival del cinema”, frutto di mesi di lavoro, dove prevale il particolareggiamento, una varietà di forme minuziose, caleidoscopio di colori e linee che si intersecano o si costeggiano in una miriade di scene di colori e forme astratte, dove ancora prevale il verde, un verde creato dal pittore. Il verde, dice Monica, è il colore preferito dal maestro, insieme al viola. Vedo nei quadri il verde giallastro del cappotto di Monica Vitti in Deserto rosso, il blu e il rosso delle baracche del porto di Ravenna, i colori delle camicie di Jack Nicholson  inProfessione: reporter, e così via. E penso a una frase altrettanto ellittica di Antonioni all’epoca del suo primo film a colori: “Se c’è ancora dell’autobiografia, è nel colore che essa deve essere trovata”.
Guardo col Maestro una grande tela verticale dove domina l’ocra. Guardo le carte, le tempere, una bellissima dal titolo “African rug”. Tutti i suoi quadri inducono un andirivieni continuo dell’occhio dello spettatore, tutti evocano una tridimensionalità raggiunta dall’accostamento delle forme e dei colori, che lungi dall’apparire grafici acquistano rilievo. A proposito di alcuni dipinti che all’inizio la sconcertano, Monica mi dice che “il maestro arriva sempre a un equilibrio, è capace alla fine di armonizzare tutto”, anche i segni apparentemente più incongrui. E guardo il maestro osservare i propri quadri, seguirne con le dita le superfici, accarezzarli senza toccarli, guardarli con le mani, infine controllarne la firma (idea, ancora, che le sue “icone” ricorrenti siano altrettante firme). E’ spettatore divertito e intrigato delle sue stesse creazioni, come se non ne fosse l’autore. Guarda se stesso come un altro. Finché li licenzia con un gesto, non senza avere pronunciato un commento: “bello”, “molto bello”, oppure un ironico “mamma mia!”, come a dire: che follia avere fatto questo quadro. Il distacco dai suoi quadri, mi dice Enrica, ripete l’atteggiamento che aveva nei confronti dei suoi film, e va connesso col detto pascaliano che amava ripetere citando il pittore Giorgio Morandi (che Antonioni frequentò e amava molto): “Il vero artista è colui che sa stare da solo in una stanza”. Ma nel suo atteggiamento, come nei suoi dipinti, c’è anche una componente di gioco e di audacia che forse solo la senilità – infanzia riconquistata – può dispiegare con tanta anarchica leggerezza: le sue opere sono una festa della libertà.
La loro tridimensionalità trova conferma in altri suoi lavori, sculture e collages, fatti di cartoncino con dentro polistirolo oppure legno. Intagli di diversi colori, incastrati e incollati creando scenografie complesse, spesso impossibili (come si diceva dalle ipotesi spaziali e volumetriche dell’architetto Frank Gehry), prolungano il piacere tattile della sua ricerca. Monica, l’assistente di Antonioni, sottolinea di nuovo la capacità del Maestro di trovare sempre una ricomposizione a ciò che si presenta all’inizio come una frammentazione irredimibile, di giungere ogni volta a una soluzione armoniosa dell’informe, anche a dispetto della sua incredulità.
La mostra di Michelangelo Antonioni sarà accompagnata, tra l’altro, dal testo di un patologo americano e studioso di cinema, David Kaminsky. Alludendo all’aspetto terapeutico di questo “silenzio a colori”, parla di “una dimensione comunitaria di colori che sembra violare l’austerità e la solitudine dello stile dei suoi film”. Può darsi. Ma a me viene in mente che il filosofo Gilles Deleuze, nel suo primo libro sul cinema (L’immaginemovimento), scriveva già di Antonioni come di “uno tra i più grandi coloristi del cinema”. Ne tratta nel capitolo dedicato al “volto”, cioè al primo piano, “immagine-affezione” che conferisce qualità di volto a ogni inquadratura, cioè intensità, capacità di rilanciare l’affettività e la potenza dell’immagine con un effetto più ampio e duraturo di ogni causa e di ogni logica rappresentativa. Questa qualità di volto, o primo piano, sarebbe data proprio dal colore. Deleuze notava quindi “l’uso di colori freddi spinti a massimo della loro pienezza o della loro intensificazione, per oltrepassare la funzione assorbente”, in cui “il colore porta lo spazio fino al vuoto, cancella quanto ha assorbito”, fino ad arrivare (scopo del cinema di Antonioni secondo Deleuze) “al non-figurativo”, “un’avventura il cui termine è l’eclisse del volto, la cancellazione dei personaggi”. E’ la vocazione al deserto di Antonioni (Deserto rosso, Zabriskie Point, Professione: reporter, maanche il parco e il campo da tennis di Blow up). L’amore di Antonioni per i quadri di Mark Rothko, attestata da un loro carteggio, conferma questa estetica, dove il silenzio delle storie e delle relazioni umane, quella “incomunicabilità” fin troppo insistita dai critici, è viatico e tensione verso lo spazio puro, e da esso al vuoto.
Penso tutto questo riguardando i quadri del Maestro nel silenzio dell’attico che si affaccia sul vuoto, e sulle pinete lungo il Tevere, e sui campi da tennis rossi che macchiano quel verde. Che cosa è il colore? Ricordo un dialogo centrale di Deserto rosso. Lei: “Che cosa vogliono che faccia coi miei occhi? Cosa devo guardare?” Lui: “Lei dice: ‘cosa devo guardare’. Io dico: come devo vivere? E’ la stessa cosa”.
Ha detto Michelangelo Antonioni all’epoca di quel film: “Non esiste il colore in assoluto. E’ sempre un rapporto. Un rapporto tra l’oggetto e l’osservatore (addirittura lo stato fisico dell’osservatore), tra l’oggetto e la direzione dei raggi che l’illuminano, tra la materia di cui è formato l’oggetto e lo stato psicologico dell’osservatore, nel senso che entrambi si suggestionano a vicenda. L’oggetto cioè con il suo colore ha una determinata suggestione sull’osservatore, e questi contemporaneamente vede il colore che in quel momento ha interesse o piacere a vedere in quell’oggetto”. E ancora: “E’ con l’abitudine che si impara a guardare i colori. E’ dopo una certa esperienza che riusciamo a distinguere quanto c’è di grigio in un giallo o quanto c’è di blu in un grigio. E questi sono fattori dai quali non si può prescindere nel cinema a colori perché la pellicola riproduce molto più fedelmente di quanto l’occhio umano non sia in grado di vedere e riprodurre quel colore in un determinato oggetto. […] Ma nel cinema tutto ciò che nella vita comune è inconscio deve diventare consapevole. E lo diventa appunto con l’abitudine, l’abitudine a guardare i colori così come sono, a guardare la realtà così com’è. Colorata.” Il cinema di Michelangelo Antonioni continua nel silenzio a colori delle carte e delle tele.

(da La Repubblica, 27-08-06)

Beppe Sebaste