Il fascino discreto di Jean-Claude Carrière, il narratore perfetto

charme   Sto conversando con Jean-Claude Carrière, scrittore e sceneggiatore, ottantanove anni portati con eleganza, nella sua casa di Parigi, un padiglione con giardino vicino a Pigalle. Un tempo questa fu una casa di piacere e una casa da gioco. Non posso non pensare all’innegabile continuità: che altro sarebbero, se non piaceri e giochi, il cinema e il teatro, le storie, i sogni, l’umorismo, i libri, i viaggi, cioè tutto quello che ha fatto e continua a fare Jean-Claude Carrière?

Ingegno poliedrico e curioso di tutto (l’astrofisica e la fisica quantistica sono le sue passioni più recenti) Carrière si definì una volta conteur, versione umile e giocosa del sostantivo “narratore”. In altre parole, se Umberto Eco (suo amico e co-autore di un paio di libri) era un “tuttologo” nello studio e descrizione del mondo, Carrière lo è nell’ambito del narrare: “Ho provato a utilizzare tutte le forme di scrittura del mio tempo”. Ha divulgato le più diverse forme narrative, compresi i racconti delle origini, i miti, “primo bisogno dell’umanità”. Le storie contribuiscono alla coesione sociale dell’umanità, dice lui. Le storie nascono orali, e sono veicolo epico della saggezza in ogni tradizione, dico io. “A patto”, aggiunge Carrière, “che facciano ridere”.

Con la sua maestria divulgativa Carrière, dopo La conferenza degli uccelli (poema persiano del XII secolo), adattò per il teatro lanciò nella scrittura e drammaturgia del Mahabharata, antico poema sacro scritto in sanscrito, per la messa in scena di nove ore Peter Brook che debuttò nel 1985 (un film di tre ore uscì nel 1989). La sua arte di accogliere, adattarsi rese Carrière uno degli sceneggiatori più ricercati e prolifici. Il cinema si rivelò per lui il gioco di tutti i giochi. Iniziò col geniale Jacques Tati nel 1957, e è dell’anno scorso la scrittura di un film del giovane Louis Garrel. Ha scritto un centinaio di film lavorando con alcuni dei più grandi registi del cinema mondiale, da Louis Malle a Milos Forman, da Godard a Oshima, anche se la collaborazione più nota è quella con Luis Buñuel, l’ultimo surrealista. Con lui Carrière visse in una vera simbiosi mentale e creativa, e firmò tutti i suoi ultimi film – da La Via Lattea a Bella di giorno, da Il fascino discreto della borghesia a Quell’oscuro oggetto del desiderio, etc.

carrière bunuel   Ha appena pubblicato un grosso libro dal titolo Ateliers (nel senso di fabbrica e scuola insieme), che racconta tutti i film e le opere di teatro a cui ha lavorato, basandosi sugli appunti presi negli “atelier” di scrittura e sulle domande degli studenti. La più frequente, guarda caso, è: “come funzionava il suo lavoro con Luis Buñuel?”. Carrière lo riassume per me.

“Tutte le battute, le idee di scene comiche e grottesche, erano un misto di entrambi, impossibile stabilire una paternità individuale. Ognuno di noi poteva bocciare le proposte dell’altro, senza perdere tempo in spiegazioni. Le idee e le immagini erano sempre il risultato di un va e vieni. Non volevamo filmare l’ordinario e il banale, ma non ci piaceva neanche lo stravagante, come l’ippopotamo in sala da pranzo. Occorreva qualcosa che mantenesse un equilibrio costante tra l’essere il più possibile fuori dall’ordinario e restare entro i limiti di ‘ciò che potrebbe accadere’, in un mondo magari un po’ sregolato, fuori dalle convenzioni, dalle norme abituali di vita. Ci mettevamo più tempo a trovare le idee giuste, ma la differenza poi si vedeva”. Buñuel procedeva insomma come un funambolo su una corda tesa, col rischio costante di cadere da un lato nel banale, dall’altro nell’assurdo. “Avevamo poi una regola assoluta: nous pouvons faire n’importe quoi, sauf n’importe quoi (“possiamo fare qualsiasi cosa, tranne una cosa qualsiasi”)”.

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Jean-Claude Carrière a casa di Georges Cukor, tra i più grandi registi del mondo. Il primo seduto da sinistra è Billy Wilder, il terzo è Luis Bunuel. Carrière è il quinto in piedi da sinistra, dietro Alfred Hitchcock

Dopo il successo di Bella di giorno (Leone d’oro a Venezia nel 1966) e dopo aver visto La Cinese di Godard, di cui Buñuel ammirò l’audacia narrativa, disse a Carrière: “adesso possiamo fare quel film sulle eresie”, riferendosi a ciò che sarebbe stato La Via Lattea. Buñuel si riferiva alla libertà narrativa che un certo cinema stava conquistando, e che gli avrebbe permesso di abbandonare finalmente vecchie e radicate convenzioni, come il rispetto dell’unità di tempo e luogo, la progressione lineare del racconto, e tutte quelle nozioni ripetute nelle scuole di cinema. La Via Lattea, storia del viaggio di due pellegrini poveri da Parigi a Santiago di Compostela, in realtà un catalogo semi-onirico di eresie cattoliche, segnò l’inizio di questa svolta.

Buñuel e Carrière giocavano spesso a osservare le persone inventando le loro vite e identità, dando loro ruoli e profili, e soprattutto dialoghi. Un buon esercizio e una riserva di idee cui attingere. Visto da fuori, il loro lavoro poteva sembrare una vacanza, e viceversa: in Spagna, a Parigi, in campagna, e nelle fasi più operative in Messico, in uno sperduto albergo del Michoacan, Balneario de San José Purua – dove Buñuel una volta portò John Huston, che vi si installò poi con una troupe per girare lì vicino Il tesoro della Sierra Madre.

Ecco un esempio della loro “ispirazione” e metodo, quando per lavoro passavano ore seduti al bar, in questo caso a Madrid. “Un pomeriggio, unici clienti, vedemmo il barman che parlava a tutti i giovani camerieri riunitisi intorno a lui. Luis si sporse verso di me e a bassa voce mi disse: ‘Provi a immaginare che stia parlando della doppia natura di Cristo’. Qualcosa in me scattò, fu un clic.” Potrebbe essere una scena de La Via Lattea – un film pervaso di discussioni, nei luoghi più improbabili e in svariate epoche, sui misteri del cattolicesimo, dalla Trinità alla natura umana e divina di Gesù, su cui ci si accapigliò per secoli.

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Trovare il titolo di un film era molto importante. A un certo punto non potevano avanzare senza quella forza di condensazione e di percorso che un titolo sa indicare. Fu particolarmente difficile per Il fascino discreto della borghesia, ma alla fine furono molto soddisfatti. La sera in cui lo trovarono, racconta Carrière, al ristorante dell’albergo “il maître andò al loro tavolo e disse con discrezione: ‘De Gaulle è morto. L’hanno annunciato alla radio’. Luis mi guardò e disse: ‘Forse non sarebbe male come titolo’”.

Quest’anno sono trascorsi centoventi anni dalla nascita di Buñuel. Mon dernier soupir, il libro autobiografico, fu un’idea di Carrière, che l’aiutò a scriverlo. “Buñuel non aveva più la forza di fare un film, si annoiava, e fu un pretesto per tornare in quel posto in Messico che amava, dove andavamo a scrivere i film. Gli scrissi il primo capitolo, e lu si mise al lavoro come su una sceneggiatura”.

“La sua morte fu esattamente quello che si augurava, una morte cosciente. Malato di cancro, agonizzante sul letto all’ospedale, sua moglie gli teneva il polso. A un certo punto Buñuel disse: Ya me muero (“Adesso muoio”). E il suo battito cessò. Fu l’ultima azione della sua vita, e non ho dubbi che anche per lui, per una frazione di secondo, sia stata un’azione che aveva potuto apprezzare.

Kurukshetra

Parliamo del Mahabharata. “Scriverlo per il teatro è stata l’esperienza più originale della mia vita, e la più lunga. Non ce l’avrei fatta se Peter Brook non mi avesse detto a un certo punto: ‘Tu puoi farlo, durerà quello che dovrà durare, non preoccuparti del tempo’. Questa fiducia mi diede coraggio, quando tutti dicevano che era un compito impossibile”. Insieme io e Peter abbiamo fatto in quel periodo tutto quello che si poteva fare in India, dormendo per terra in villaggi remoti e spogli, vivendo dell’essenziale, partecipando a numerose forme di spettacolo improvvisato, di teatro tradizionale. Ancora stamattina Peter mi ha chiamato, ha 95 anni, è cieco. Ricordo un pomeriggio, in Kerala, in cui Peter si assentò e tornò felice di avere camminato finalmente in un luogo senza folla, con grandi prati rigogliosi. Finché gli dissero che quel luogo era infestato dai cobra”.

Dico a Carrière che tra i suoi libri che ho più amato c’è il suo Dizionario amoroso dell’India, e un libro-conversazione con il Dalai Lama in cui un capitolo geniale incrocia i temi della reincarnazione, la fine del mondo, l’astrofisica e il Big Bang (“chi ha detto che ci si deve reincarnare per forza in un corpo? si può rinascere anche allo stato gassoso”). Torniamo al Mahabharata, un’opera che contiene tutto quello che in letteratura sarebbe avvenuto in seguito, dall’Iliade a Harry Potter. Carrière sorride: da sempre è il libro stesso a ribadirlo al suo interno: “Tutto ciò che è qui, è da qualche parte. Quello che non c’è, non è da nessuna parte”. È un lavoro prodigioso, per di più scritto prima dell’invenzione della scrittura, tant’è vero che è il Dio Ganesha a scriverlo sotto dettatura.

Ma è la sua gravità epica a renderlo terribilmente attuale. Dopo un’epoca in cui miseria e guerra non esistevano, e uomini e divinità erano vicini, la terra si avvicina alla distruzione, alla sterilità. Gli omini sono divorati da desideri di conquista. “Quando si preferiscono i propri figli a quelli degli altri, la guerra è vicina”.

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Articolo uscito su Venerdì di Repubblica del 17/01/2020