Il mercato della filosofia

Dopo i festival nelle piazze, gremiti da persone che attendono parole inequivocabilmente diverse da quelle televisive, il fenomeno sociologico e di costume del successo della filosofia in pubblico continua, dopo quello della letteratura, a cambiare modi e luoghi della fruizione culturale. Per esempio a Roma, al Teatro Eliseo (che ha mille poltrone) di recente trecento persone sono rimaste fuori al primo degli incontri “filosofici” del lunedì promossi dall’Enel. Un’altra rassegna, “Filosofeggiando”, si sta apprestando in un cinema del centro. E un po’ ovunque in Italia prendono forma simili “eventi”. Poco importa che sotto l’egida della filosofia si offrano svariate scienze umane (dalla psicologia alla geografia). Conta l’adesione a una parola ricca di senso e povera, almeno all’apparenza, di applicazioni pratiche. Conta il bisogno rivendicato e diffuso di educazione, cosa molto diversa dalla “formazione”, più o meno professionale. La cosa merita alcune riflessioni. Da quando Jeremy Rifkin, nel suo L’era dell’accesso, propose un’inoppugnabile descrizione della nostra epoca, chiamandola “capitalismo culturale”, è difficile non porsi domande sul business odierno della trasmissione delle conoscenze, tanto più valorizzate quanto più appaiono inutili, e quindi lussuose. Come la filosofia, appunto, il cui insegnamento compare molto opportunamente (e anzi finalmente), nel programma di riforma dei Licei del ministro Moratti per ogni tipo di indirizzo, anche quello tecnologico. Ma di cosa parliamo quando parliamo di filosofia?
Prima di rispondere vorrei cercare di capire che cosa possa essere filosofia per il cosiddetto mercato. Nel suo libro Rifkin non ne descriveva solo la trasformazione, il declino della compravendita di beni, mobili o immobili, a favore di un’ampia rete di servizi, ovvero una merce decisamente immateriale, qualcosa come una password per accedere, come un biglietto, un affitto, o come la quota sociale di un club. Mostrava come tra le merci immateriali o servizi oggi più venduti non ci siano soltanto le informazioni, o gli infiniti gadgets delle nuove tecnologie della comunicazione, ma tutto ciò che sta tra l’educazione e l’intrattenimento, tra la cura di sé (soprattutto dell’anima) e le parole per dirla. L’incontro tra un’offerta formativa, come si dice oggi, e le esigenze del mercato del lavoro, non esaurisce però la paletta dei servizi (o consumi) educativi e spirituali di cui si compone il “capitalismo culturale”. E se viene in mente Sant’Agostino, già insegnante di retorica (“parole gonfie di vento”), poi filosofo platonico, prima di convertirsi al Cristianesimo (“mercanti di senso”, chiamò nelle sue Confessioni i suoi antichi sodali), occorre in realtà sbarazzarsi dei pregiudizi per considerare questo fenomeno. Allora, di cosa parliamo quando parliamo di filosofia?
Ho scritto sopra che la filosofia è o appare “inutile” proprio per differenziare le competenze di cui essa è prodiga da quelle direttamente vincolate e veicolate a modalità già note e valorizzate nel mondo del lavoro e dell’economia: competenze non funzionalizzate, non immediatamente orientate a uno scopo. E’ filosofia quella capacità complessiva e assai disinvolta di saper relazionare tra loro cose considerate irrelate dal senso comune: arte della connessione, della concatenazione, in qualche modo arte della metafora. E’ filosofia la capacità di padroneggiare linguaggi, la flessibilità e la prontezza nel riconoscere e risolvere problemi, nell’adattarsi, nel sapere e saper dire ciò che si fa. E’ quindi filosofia quell’insieme di competenze e conoscenze (uso volutamente il lessico un po’ burocratico dell’attuale letteratura pedagogica) che consente di sentirsi a proprio agio nei più diversi ambiti. Filosofia è questo, soprattutto: un saper dire, frutto di una riflessione sul linguaggio, nella consapevolezza che vivere delle esperienze sia tutt’uno col saperle comunicare. Si capisce quindi che la sua trasmissione sia essenziale in ogni tipo di scuola, e che è cosa ben diversa dall’erudizione filosofica.
Eppure, contemporaneamente all’affollarsi di teatri e di piazze, i luoghi deputati alla trasmissione delle conoscenze, i luoghi della parola e delle lezioni magistrali, vengono piuttosto ignorati dalla considerazione popolare e dall’immaginario collettivo, e di università e scuola si parla soltanto in occasioni negative o disastrose. La normalità dell’insegnamento, delle pratiche di trasmissione dei saperi, anche della filosofia, non sono quasi mai tematizzate. E’ banale ricordarlo, ma quasi tutti i relatori di festival e rassegne insegnano da qualche parte in modo regolare, e le trafile per diventarne studenti ”uditori” non è molto complicata. (A Parigi, ben pochi andavano nel demagogico “caffè filosofico” in piazza della Bastiglia, ma le lezioni regolari dei filosofi si tengono in anfiteatri assai affollati). In Italia la fraquentazione e l’ascolto sono massicci solo in luoghi extra-accademici, a riprova che si tratta di una parola che crea, più che un uditorio, un “pubblico”, così come si dice delle rappresentazioni e degli spettacoli. Anche se si parla da anni di educazione permanente, di educazione degli adulti, e da più parti ormai si tessono elogi dell’inutile e della cosiddetta cultura generale, un’opportunità come i corsi serali (chi scrive li conosce per esperienza diretta) sono scarsamente promossi, e al massimo con indirizzi piuttosto formativi che educativi in senso ampio. “Perché non esiste un liceo classico serale?” – mi ha chiesto una studentessa-lavoratrice poco tempo fa. Mi sembra una buona domanda. E’ importante soprattutto difendere, contro i tentativi di sovrapposizione, la diversità di pratiche come la formazione, l’istruzione e l’educazione. Le conoscenze e competenze non indirizzate a uno scopo professionale immediato si rivelano, come detto sopra, le più attive nel risvegliare capacità forse più spendibili della conoscenza dell’inglese.
Tornando alla filosofia, e al business culturale, la questione è sociologica perché riguarda il volto del nuovo mercato in cui anche urbanisticamente cambiano le nostre città – sempre più simili a portali di Internet, dove palazzi e monumenti sembrano sottoporsi a restauri e restyling per potersi ricoprire con immensi cartelloni pubblicitari. Ma, attenzione, la filosofia è una di quelle cose che si accompagna male allo spirito della “esposizione universale delle merci”, all’evidenza trionfale di un mercato. Proseguendo la metafora urbanistica, alla filosofia – arte della meraviglia, virtù dello stupore e della scoperta – si addice di più il percorso barocco e inaspettato delle stradine che portano alla sorpresa di Piazza Navona, che non il gioco prospettico di San Pietro. La filosofia è un’arte dei vicoli più che dei boulevards. E’ quindi propria alla filosofia la solitudine della ricerca, un certo rischioso avventurarsi, opposto al riceverla già pronta e confezionata. E’ dubbio che si tratti ancora di filosofia quando relatori più o meno famosi e mediatizzati porgono alle gente che si affolla nei teatri le stesse parole che questa voleva sentirsi dire. La filosofia è tale se comporta una certa fatica nell’accesso, se produce una certa perplessità in uscita, tutto il contrario di una conferma di se stessi. Ed è questo, penso, il bisogno che esprime la domanda collettiva di senso e di parole altre da quelle banalizzate e rimasticate dai media e dai politici, il motivo dell’affollarsi di teatri e di piazze, via di mezzo tra l’agorà e l’antica Stoà: un bisogno di educazione, e diciamo pure di “maestri”. Maestro: coincidenza dell’insegnamento e dell’insegnante, guida nel difficile viaggio tra i simulacri dell’esperienza, di sé e del mondo, che la nostra crescente povertà ci fa avvertire come alienazione. Alienazione nel senso profetizzato un secolo e mezzo fa da Marx, certo, ma anche in quello di un’inversione dei valori per cui vale la pena vivere, e a cui una buona tradizione di maestri, tanto occidentale che orientale, non ha mai cessato di riferirsi.
Il mercato della filosofia è quindi insieme un’opportunità e una dispersione. Poiché la filosofia è da sempre anche viaggio nelle allucinazioni – nella “notte oscura” – è opportuno ricordare che, tra le tante prodotte per essere consumate, l’allucinazione più riuscita – che come un incubo perfetto coincide con la realtà – è quella in cui viviamo, il contesto in cui prende forma ogni altra rappresentazione e fruizione culturale. Chiamiamolo il “tempo presente”, oggi addirittura mondializzato: un nunc ormai privo di hic, o un qui grande come il mondo in un adesso perpetuo. Sentiamo il bisogno di “filosofia” anche perché il tempo e lo spazio sono ormai omogeneizzati, e il non-luogo (un immenso mercato) è l’ovunque, avendo soppresso l’altrove. Questa claustrofobia, ricerca di una via d’uscita, di un’evasione, coincide in ultima analisi col senso stesso della filosofia: “insegnare alla mosca a uscire dal bicchiere”, come annotò Ludwig Wittgenstein. Ma la domanda di filosofia non è allora anche una domanda politica? Sì, perché in qualche modo ognuno di noi sente che tutto ciò che accade è oggi catalogabile nei riti che celebrano la vittoria del presente non solo sul passato, ma sul futuro, d’ora in poi solo “futuro del presente, vale a dire di questo presente”. La citazione è da un ottimo libro di Fabio Merlini, un filosofo vero e modesto, come tanti altri: La comunicazione interrotta. Etica e politica nel tempo della ‘rete’ (Dedalo).

Beppe Sebaste

(uscito su l’Unità il 27 febbraio 2005)