Il mondo possibile di Wallace Stevens

(Mio articolo uscito il 10 settembre 2015 su l’Unità)

poems

 

Vorrei dirlo subito: leggere Wallace Stevens è una vacanza assoluta dalla banalità dei media, un’evasione dall’assedio delle parole pubblicitarie, politica compresa. Per usare il titolo di una sua poesia (una delle prime tradotte in italiano negli anni ’50 da Renato Poggioli), è l’immersione in un sunday morning, un mattino domenicale: uno stato del mondo, una domenica dell’anima, un mondo possibile in cui il linguaggio è inutile e gratuito, come l’utopia messianica del Paradiso in cui non c’è beatamente nulla da dire, perché si parla solo (di) poesia. Leggere Wallace Stevens conduce insomma in una dimensione diversa per natura da quella che valorizza i “professionisti della comunicazione” (come il primo ministro ha di recente definito, pensando di dire bene,  il Cda della Rai).

meridiano stevens

Eppure Wallace Stevens, “angelo necessario” della parola, era l’impiegato di una società di assicurazioni, anzi il consulente giuridico, un lavoro che – pur costellato di pubblicazioni di libri, lauree honoris causa a Harvard, Yale, Columbia etc., numerosi premi, letture e conferenze – ha continuato a svolgere fino alla morte, avvenuta a 75 anni nel 1955. Fa effetto pensare che in quello stesso anno venne pubblicato Urlo (Howl) di Allen Ginsberg, lungo poema con sintassi e lessico di ostentata rottura, subito sequestrato e processato per oscenità. Era l’inizio della beat generation, che con la sua impetuosa energia fece ombra su gran parte della poesia precedente (fatta eccezione forse per Ezra Pound e il più remoto Walt Whitman). C’è voluto quindi del tempo perché anche in Italia e in Europa l’opera di Wallace Stevens emergesse in tutta la sua luminosa singolarità e grandezza, a partire da quella raccolta a cura di Renato Poggioli per Einaudi negli anni ’50, poi con le traduzioni di Nadia Fusini e di Massimo Bacigalupo, cui si deve oggi la cura del Meridiano Mondadori di Wallace Stevens, Tutte le poesie.

Non era facile accorgersi che il linguaggio estremamente semplice e cristallino, quasi trasparente, di Wallace Stevens, fosse al tempo stesso assolutamente opaco per via della continua rifondazione semantica, della pregnanza che assume quasi ogni parola. Come “mattino domenicale”, appunto, che richiama al tempo stesso la passeggiata, i rituali di salvazione di un’agiata comunità del Connecticut o dello stato di New York (non dissimile da quella ebraica descritta in nell’elegia dedicata alla Zia Rose da Allen Ginsberg), o anche una voluttuosa e colorata beatitudine alla Matisse, una colazione nel giardino che Wallace Stevens descrive spesso nelle lettere, dove consuma pasti annaffiati di Borgogna bianco e contemporaneamente assorbe, come una spugna spirituale, come un fotografo dell’invisibile, le gradazioni della presenza del Divino nel luogo, nell’atmosfera, nel cielo, nell’infinita stratificazione della natura esterna e interna. E, soprattutto, nella lingua.

Le sue poesie, distillato di percettività e sensibilità (secondo l’esatta etimologia della parola “estetica”, da lui consapevolmente adoperata), sono il luogo in cui raccontare il processo di metabolizzazione del reale nella lingua. Salvatosi dai vicoli ciechi dell’avanguardia grazie a una spirituale indifferenza alle ideologie – per esempio l’errore di credere, come dirà Roland Barthes a proposito di altre avanguardie, che esista un ordine delle cose antecedente l’ordine delle parole, o viceversa – la smania di Stevens di dire il mondo è tutt’uno con la necessità e il lavoro di costruirsi una lingua. Lingua è ciò che la lingua esprime, trasporta, metaforizza; è ciò che accade mentre essa dice che qualcosa sta per accadere o sta accadendo. Lingua è, per usare una parola intensa, evento. È il senso profondo della descrizione, sua parola chiave.

stevens1955
Wallace Stevens nel 1955

 

“Sta per accadere una descrizione del mondo”, “Sta accadendo una descrizione del mondo”, “È accaduta una descrizione del mondo…” Così, con un megafono, il poeta Andrea Inglese sottolineava qualche mese fa un happening a Torino – poeti invitati a lasciare fisicamente, graficamente, foneticamente e ostensivamente una “descrizione del mondo”. Che ne siamo consapevoli o no, sempre qualcosa sta per accadere, fosse anche solo la memoria di ciò che è accaduto, ed è possibile descriverlo. È la ragion d’essere della letteratura – l’allerta permanente di un accadere e della sua apparenza – e dell’opera di Stevens in particolare.

Incontrai per la prima volta esplicitamente questo tema in una piccola antologia bilingue delle poesie di Wallace Stevens a cura del poeta Bernard Nôel, il cui titolo era lo stesso di una delle poesie contenute, Description whitout Place, “Descrizione senza luogo” (in francese “sans domicile”, “senza domicilio”). È qui che scoprii e ritradussi, con uno shock salutare, poesie straordinarie come Aneddoto di uomini a migliaia, Tredici modi di guardare un merlo, La casa era quieta e il mondo era calmo, versi come “L’anima, dice, si compone / Del mondo esterno”, versi che non assomigliavano a quasi nulla di quello che conoscevo, salvo forse a qualche composizione musicale di Erik Satie e, nel presente, a certe poesie considerate “zen” di un mio maestro, Corrado Costa.

   Bernard Nôel spiegava il meccanismo della poesia/descrizione di Stevens: cogliere una cosa nel suo svelamento e mantenerla intatta mediante la costruzione di un’altra cosa verbale, in modo che la cosa scritta e la cosa reale si accordino fino alla somiglianza, creando un’imprevedibile identità, che non è il risultato di una copia, ma il risveglio in noi di uno stato di “piacere” dovuto a un potere di rivelazione. Lo dicono già i versi di Stevens: “La descrizione è rivelazione. Non è / la cosa descritta, né falso facsimile. / È una cosa artificiale che esiste, / nel suo proprio sembrare, pacificamente visibile…”

Luigi Ghirri: Lucerna, 1971
Luigi Ghirri: Lucerna, 1971

Ero da poco amico di Luigi Ghirri, e queste parole su Stevens mi sembrarono descrivere con esattezza la magia delle sue fotografie, “cose visive” che in modo del tutto naturale, senza alcun artificio o effetto speciale, riportavano la realtà delle cose “là fuori” come epifanie, come se le avessi da sempre già viste senza rendermene conto, una rivelazione, appunto. Che gioia scoprire che Luigi Ghirri conosceva e amava le poesie di Wallace Stevens, una delle quali (“Della superficie delle cose”, tratta dalla sua prima raccolta, Harmonium) mi è da allora impossibile separare da lui:

“Nella mia camera, il mondo è al di là del mio intelletto; / Quando cammino vedo che si compone di tre o quattro / colline e di una nuvola”.

Penso che Wallace Stevens sia l’ultimo dei grandi romantici, un “sublime americano”, come scrive Massimo Bacigalupo nella sua bella Introduzione al Meridiano. Il quale pure sottolinea il gesto conoscitivo del poeta, il suo tentativo costante di una presa sul reale. Forse potremmo dire il tentativo, a volte lieve e soave altre spasmodico, di approdare a un al di là del sapere, di trasformare (come i veri filosofi) il senso stesso del “comprendere”, che di norma è un prendere (concipere, Begriff), ma che per la poesia è invece un lasciar stare, al limite un accarezzare, come nell’etica filosofica di Emmanuel Levinas che sostituisce “concetto” con “carezza”.

Che la poesia sia un rimedio, una cura, o quantomeno possa indicarne la via (capace di emendare anche la politica), lo suggerisce tra le altre la poesia Esthetique du mal (“Estetica del male”, cioè del dolore), il cui parallelo con Leopardi emerge così palesemente da sembrare una citazione, dato che le prime strofe del poemetto si collocano a Napoli e vi si parla delle eruzioni del Vesuvio (una avvenne il 18 marzo del 1944, quando c’erano gli Americani). La poesia parla dunque della distruttività e dell’indifferenza della natura nei confronti del dolore dell’uomo; ma poi va oltre Leopardi, oltre l’eroismo della Ginestra, rovesciando il tema nella descrizione dell’indifferenza del dolore umano nei confronti della natura. È questa la vera patologia della nostra epoca. In forma elegiaca il poema descrive nelle ultime strofe la follia ideologica (poliziesca o raziocinante, stalinista o tecnocratica che sia) al cospetto del lago di Ginevra (citazione dell’esilio di Lenin nella città di Rousseau). È un luogo simbolico, ci vuole un lago per sciogliere la logica ossessiva, cieca alla bellezza, di un rivoluzionario monologico. Come ha scritto in Descrizione senza luogo, “Lenin sulla panchina presso un lago disturbava / i cigni. Non era uomo da cigni”.

Occorre fare appello all’esperienza fisica del mondo, alla fisicità della bellezza. Averne perso il contatto è per l’uomo “la povertà più grande”, “non vivere in un mondo / fisico, sentire che è troppo difficile distinguere / il proprio desiderio dalla disperazione”.

tomba stevens

Articolo di Beppe Sebaste uscito il 10 settembre 2015 su l’Unità, erroneamente e incomprensibilmente firmato Rock Reynolds (errata corrige, con scuse del giornale, dopo 24 ore, in un trafiletto)