(l’Unità, 2 ottobre 2001)
“Il cinema è aprire gli occhi”, mi dice Bernardo Bertolucci parlando di poesia e realtà, ma anche di politica, e questa frase sarà il Leit-motiv della chiacchierata col grande regista. Discutiamo dell’Italia di oggi, dopo le esternazioni dei nostri governanti sulla superiorità dell’Occidente: “Sono con il fiato sospeso” – dice assorto e scandendo bene le parole. “Scavalcando le parole di Berlusconi, mi chiedo come le abbiano lette e ricevute gli italiani. Mi chiedo se la sedicente maggioranza che ha votato questo governo riesca piano piano ad aprire gli occhi”.
Bertolucci è a Parma, invitato dall’Assessorato alle (celebratissime) Celebrazioni Verdiane, per la presentazione di Bertolucci images (a cura di Marcello Garofalo, Pacini Fazzi Editore), viaggio nel suo cinema attraverso 122 immagini fotografiche scattate sui set, dall’esordio con La commare secca nel 1962 e il magnifico Prima della rivoluzione (1964), fino a L’assedio del ’98. Storia di una carriera, ma anche di un immaginario estetico significativo della seconda metà del Novecento in Italia.
“Questo aprire gli occhi”, continua il regista, “valeva anche per il periodo della campagna elettorale, e mi chiedo: quando cominceranno gli italiani a vedere le cose come stanno? Oggi vengono dette cose così clamorose, spesso direttamente offensive del buon senso democratico. E’ possibile che bisogna leggere, per trovare le parole giuste sull’Italia, giornali come Le Monde, o The Economist? Possibile che la gente non si renda conto di cosa sia successo dopo un lungo periodo di democrazia, negli ultimi dieci-quindici anni? Anche a sinistra non ho visto una reale comprensione delle cose, il fatto cioè che tutta una cultura politica e un dibattito di idee dal dopoguerra ad oggi sia stato spazzato via, azzerato forse dalla televisione…” E a proposito di televisione: “Mi ricordo – continua il regista – di avere parlato a lungo con D’Alema, con Veltroni, con Violante, dicendo loro che l’errore più grande è stato non vedere per tempo l’importanza della televisione, non avere saputo proporre un modo di dire, di discutere e di mostrare al pubblico idee e contenuti che fosse diverso dall’esempio degradante di un Canale 5… Gli italiani non leggono il giornale, o lo fa uno su dieci, tutto passa dalla TV. Possibile che non sia stata fatta una TV diversa? La gente è ormai intorpidita, accecata…”.
Il cinema, appunto, è aprire gli occhi. Nato nella campagna di Parma, Bertolucci sviluppò questa attenzione imparandola dal padre Attilio, il grande poeta della quotidianità e della sua sublimazione, in un’educazione che richiama il modello dell’ecologia della mente di Gregory Bateson. Bernardo Bertolucci fu educato alla creatività dal riscontro di verità che i contenuti delle poesie del padre avevano nella realtà intorno a lui, in un continuo andirivieni tra parole e cose in quel microcosmo, che per un bambino è sempre un macrocosmo, del suo mondo domestico. Così, la “rosa bianca” cantata dal padre come dedica alla moglie, poteva scoprirla nel giardino, così come poteva vedere il “rosone tiepido” da cui entra il raggio di sole nella stalla, o “la posta del mattino azzurra fra le mani”. Da questa “induzione di una disciplina che mio padre ha fatto in me”, mi spiega, “capivo inconsciamente che bisogna aprire gli occhi, che si può ovunque suggere poesia e realtà. La poesia non era altro che la risonanza di quello che esisteva ed accadeva intorno a me.”
Questa risonanza del mondo, che Bertolucci riproduce nella sua regia “musicale”, nell’azione della cinepresa sempre coinvolta dall’azione, e che costituisce il particolare fascino e l’effetto di suspense del suo cinema, si sgrana davanti agli occhi del visitatore della mostra di fotografie scattate sui set dei suoi film, e non è un evento da poco. Le immagini della lavorazione dei film più recenti di Alessia Bulgari, le splendide inquadrature in bianco e nero dello scomparso Angelo Novi sul set diUltimo tango, del Conformista, di Novecento, e quelle godardiane e anni ’60 di Marilù Parolini, rivelano allo stesso regista il film del cinema, in un gioco di specchi (“queste foto non rappresentano i miei film, ma l’inconscio dei miei film. Che è lo specchio del mio”). Queste immagini “rubate” non solo raccontano la nostra storia di italiani e i nostri sogni, ma quasi per metonimia ci prestano degli occhi per vedere oltre quello che mostrano. I corpi per terra dopo l’amore di Ultimo tango a Parigi che citano il Living Theatre di Julien Beck, i volti nel Tè nel deserto e l’Ultimo imperatore che hanno una tale intensità figurale che forse la fluidità narrativa di Bertolucci ci comunicava in modo quasi subliminale. “I fotografi – dice con ammirazione Bernardo Bertolucci – sono grande ladri”. Mi viene in mente quello che diceva il grande fotografo Luigi Ghirri, che la cosa più importante in una foto non è quello che si vede, ma quello che è fuori, che non c’è. Frase dal sapore sapienziale, ma che suggerisce anche qualcosa di molto pratico, ovvero che il fuori-campo esiste e insiste anche nella sua assenza, o apertura. “Assenza / più acuta presenza”, recitava il padre Attilio. Bernardo Bertolucci mi risponde spiegandomi il “dispositivo naturale” del fuori-campo, il suo “effetto di thrilling”, paragonandolo al peeping, allo spiare, guardare furtivamente, e quella parentela quindi dello sguardo cinematografico, il guardare dal “buco” della camera, col buco della serratura, un fuori campo da cui magari non vedi, ma sei costretto a immaginare…”
Si diceva, una volta, “immaginazione al potere”, slogan esistenziale e politico che riassume le utopie di molte generazioni. Il sospetto è che oggi, mutandone radicalmente i contenuti, e con l’uso strumentale della civiltà delle immagini televisive, l’immaginazione al potere l’abbiano realizzata Berlusconi e il suo regime mediatico-pubblicitario “Direi piuttosto marketing al potere”, replica Bertolucci. “E mi chiedo se questa guerra di cui si parla, di cui si sono avvicendati vari nomi – perfino quello di “Noble eagle”, aquila nobile, ma richiamava troppo l’immagine del dollaro – non serva anche ad individuare nuove zone per il martketing, territori ancora vergini.”
Gli chiedo se è vero che stia progettando (o girando?) un film sul ’68. E’ vero, e anche per questo preferisce non parlarne, per rispetto al lavoro intensamente creativo dopo alcuni anni di attività di produzione (come dell’ultimo film della moglie Clare Peploe, Il trionfo dell’amore). “Sarà comunque un film contemporaneo”, dice il regista, “il cinema è sempre contemporaneo, anche se parla di trent’anni fa. Questo percorso di immagini”, dice con una certa commozione riferendosi alla mostra, “che non segue il tempo del calendario, comincia con Prima della rivoluzione, e arriva quasi all’oggi. Ma siamo sempre in un tempo ‘prima della rivoluzione’”…
Vorrei chiedergli un’ultima cosa, frutto di una suggestione che hanno prodotto i suoi film, ma anche di problematiche personali. Due frasi: “Il monaco è colui che lascia la propria casa per abbracciare il vasto mondo” (Raimon Panikkar). “Il sesso e la mistica sono la stessa cosa” (Leonard Cohen). Collego queste frasi così diverse al parallelo che fa un critico cinematografico tra il cinema di Bernardo Bertolucci e la figura del viandante, dell’errante, sia per i film sull’allontanamento da casa (Parma, Roma Parigi) e la trilogia orientale (“Il tè nel deserto”, “L’ultimo Imperatore” e “Il Piccolo Buddha”), sia per una finale consapevolezza, nei suoi film, che i dualismi raccontati all’inizio della sua carriera siano, alla fine, coesistenti. In fondo, Bertolucci e io ci siamo conosciuti soprattutto nell’occasione di un Vesak, festa del Risveglio di Buddha, negli anni ‘90. Il grande regista mi risponde con un aneddoto ispirato alla sua guida durante la lavorazione del Piccolo Buddha, il monaco Dsongar Rimpoche, divenuto a sua volta, per contagio, autore dell’ottimo film la Coppa.
Una volta finito il film, quel “meraviglioso periodo”, Dsongar Rimpoche gli disse che sarebbe tornato in ritiro nel suo monastero in Bhutan, almeno tre mesi in silenzio, senza parlare con nessuno… “Dopo tanta decadenza sul set del film”, gli disse il regista, “ora per te viene finalmente la fase della rinuncia…” Il monaco, mi racconta Bertolucci, lo guardò, “e con quel diabolico umorismo tibetano mi rispose: ‘Non credi che la più alta forma della rinuncia sia la rinuncia della rinuncia’”?
Beppe Sebaste