Incontro con Christian Boltanski e Annette Messager

(l’Unità, 27 febbraio 2003)

Se è vero che l’arte si vuole memoria, catalogo e documentario della vita umana, dei suoi usi e dei suoi oggetti, da anni mi chiedo che differenza ci sia tra un bazaar dell’usato e una mostra, o meglio ancora tra un deposito di “oggetti smarriti” e un’installazione di “arte contemporanea”. Mi rispondo che solo l’istituzione della “firma” (e la regia d’autore che la giustifica) fa la differenza. Wittgenstein: “nell’usanza non c’è errore”. Boltanski: “dove finisce l’arte, dove comincia la vita?” Non credo in effetti che mi sarei posto quella domanda senza l’insegnamento esemplare di Christian Boltanski, il cui lavoro ruota intorno alla differenza tra volto e ritratto, e di cui ricordo, oltre alle foto dei morti esposte nei musei di mezzo mondo e raccolte in tanti libri, la mostra al Monte di Pietà a Palermo, gli assembramenti di oggetti al Museo del Prado a Madrid, le stanze colme di abiti, sinistramente ammassati e struggenti, al Musée d’Art Moderne a Parigi. Stesso discorso per le opere apparentemente più “leggere” della sua compagna (nella vita) Annette Messager, che con pupazzi, lane, tessuti racconta storie di conversioni, memorie di corpi assenti, riattualizzando la categoria dell’Unheimlich (il freudiano “perturbamento”), l’inquietante famigliarità di ciò che strappato dal suo contesto ci colpisce con nuova incongruenza. Entrambi hanno proposto al pubblico italiano una panoramica delle loro ultime opere. Chi non le ha ancora viste o voglia rivederle deve ormai affrettarsi. La duplice mostra a Siena di Annette Messager e Christian Boltanski è una sorta di amplificazione della “giornata della memoria”, sinonimo di trasmissione del mondo, dell’essere umani sulla Terra. Ho parlato a lungo con loro. L’imminenza di un’altra guerra insensata resta come un buio sottofondo alle nostre parole.
Tutto quello che resta, anche il tempo: è l’idea che unifica i vostri lavori. Se ciò che resta è poi anche ciò che resiste, i riferimenti estetici e psichici si sommano a una visione politica del mondo…
Dice Boltanski: “Togliere il nome, estirpare l’identità, è il lutto assoluto. Per me risale allo choc originario della Shoah. In Rwanda si uccideva con le mani, si guardava il nemico, lo si riconosceva, c’era quasi un rispetto per l’altro. Nella Shoah no, e nemmeno nelle guerre contro l’Irak, o contro altri fatte con i missili. Non si sa neppure quanti morti facciano, e si toglie la nozione di soggetto a chi si uccide. Tutto il mio lavoro ruota intorno a questo: avere un nome. E’ importante, dà la prova dell’identità, che è ciò che si sopprime in un regime concentrazionario. Il nome è la prova dell’umanità, ciò che ci rende insostituibili. Tutte le ideologie e le religioni sono tentativi di dare identità. Ma quando si dice di una guerra che farà “duemila morti”, l’orrore è ignorare che in quel numero c’è uno che gioca a calcio, un altro che ama gli spaghetti, ecc. Avevo un nonno di cui oggi nessuno si ricorda, a parte me. Nella mia serie Menslisch (Fratelli umani), con 1200 volti, erano mischiati nazisti, ebrei, svizzeri, vittime e non vittime, eccetera. Non si può dire altro che questo, che erano umani. Ma ciò che caratterizza l’identità è perduto”.
Eppure, insisto, tolta la funzione identificante di un ritratto, rimane il volto. Dopo l’11 settembre, quando per le strade di New York centinaia di foto di dispersi, tratte dagli album di famiglia, furono attaccate sui muri o appese ai rami degli alberi autunnali, ancora una volta pensai a Boltanski, alle sue sìndoni commoventi in bianco e nero. Quei volti di Manhattan (o quelli dei desaparecidos di Plaza de Majo) facevano lo stesso effetto etico e estetico delle sue mostre, dalla Classe di Bambini di Digione del 1955 al Liceo Ebraico Chase di Vienna del ‘31, oppure alla serie degli Svizzeri morti, ottenuta ingrandendo le foto degli annunci funebri su un giornale di provincia (“ebrei morti”, disse Boltanski, suonava troppo ovvio, mentre non c’è nulla di più “ordinario” e neutrale degli Svizzeri). E’ come se avesse scoperto qualcosa che è allo stato latente nelle fotografie più comuni, e che le rende elegiache. L’ingrandimento svela la grana della carta, ed evacuando il contesto rende i volti assoluti; chi li vede ha di fronte a sé il proprio prossimo, non in quanto parente, ma in quanto umano, come se il volto fosse finalmente non il viso che miriamo, ma l’altro che ci guarda, ovvero ci riguarda. Volto che s’offre (soffre) c che tanto più è impreciso, anonimo e sfuocato, tanto più ci commuove. Ciò che per il filosofo Emmanuel Lévinas è l’origine dell’etica e dell’idea di infinito, sinonimo di Dio e di relazione sociale (“il volto è rivolto a me – è questa la nudità stessa”).
“Una cosa simile – racconta Boltanski – la provai riunendo in una grande sala gli elenchi telefonici di tutti i Paesi del mondo: ancora un’idea di “fratelli umani”, tutti coloro che nello stesso tempo sono collegati sulla Terra. Un’immensa biblioteca coi nomi di tutti quelli che vivono contemporaneamente. Il mio tema principale resta l’unicità e l’importanza di ognuno, e al tempo stesso la sua scomparsa. Di fronte a questo dolore mi viene in mente Napoleone, che davanti ai morti di Austerlitz disse: ‘una notte d’amore a Parigi sostituirà tutto questo’. Oggi penso questo della morte, che non siamo rimpiazzabili, però saremo rimpiazzati; che ci sarà sempre qualcun altro. Ed è la frase più ottimista che possa dire.” “Faccio lo stesso lavoro di memoria con le cose vecchie, coi vestiti che conservano un’identità, una memoria, l’idea del dono, a volte l’odore del corpo. Una volta dati agli ‘oggetti smarriti’ perdono identità, e quando si ricomprano ne acquistano una nuova…”
Questo è il lavoro di Annette Messager. Sono i suoi materiali, dove il tessile, la testura, la trama, si incrocia col tramandare delle arti tradizionali femminili, con la contiguità del corpo. Sollecitata a parlare del femminile e della metonimicità nelle sue opere – pupazzi di lana, cuscini, opere di stoffa riciclata – Annette Messager sottolinea come per lei si tratti di “trasmettere emozioni, sentimenti, amori e odi, paura di vivere e di morire, quello insomma che gli altri nascondono o rimuovono”. “Sono molto attenta a quello che mi succede intorno. Negli anni ’70 al centro della mia attenzione c’era la vita quotidiana, l’intimità delle donne. Oggi è diverso. Anche se mi ha fatto molta impressione leggere un rapporto in Francia sulle violenze domenicali nei confronti delle donne. Il mio lavoro mostra cosa fare coi materiali d’uso, i tessuti, le lane che si indossano sul corpo, i cuscini. E’ importante il carettere femminile di questi materiali. Ma un cuscino dall’aria morbida e confortevole di colpo diviene un oggetto conturbante. Il familiare diventa strano e inquietante, qualcosa di dolce diventa aggressivo: punte pericolose che sembravano carine e graziose. E anche l’uomo è così, dolcissimo amico, ma anche feroce nemico. Il mio lavoro è intorno al corpo, come i miei “ex-voto”, ringraziamenti contro malattie e disperazioni. E’ un lavoro frammentario e frammentato, che nello spazio delle Papesse a Siena ha trovato un suo luogo ideale, labirintico e spezzato, pieno di percorsi, rimandi, richiami, uno spazio ugualmente frammentato. Gli ex-voto dicevo mi interessano in relazione al corpo tagliato, spezzato, come lo concepiamo oggi ogni volta che diciamo ‘ho male a un piede’, ‘ho mal di testa’. Il famoso libro di Barthes sull’amore (Frammenti di un discorso amoroso) mostrava come nella nostra società non si possa parlare della donna che a frammenti, come dei primi piani sul suo corpo. C’è infine un richiamo all’animalità perduta, la parte animale di sé che ci si dimentica, a parte i bambini: sono i piccoli animali di peluche, o gli animali impagliati, che ci spiano, ci sorvegliano, e che magari sono altrettanto cattivi degli umani. Mi interessa richiamare il misto di animalità e umanità, richiamare il corpo, gli odori, tutti quei segni della vita che più si invecchia più li si vuole nascondere. E’ questo che faccio colla lana e i tessuti, in un’operazione quasi anatomica, di decostruzione. In francese si dice détricoter, disfare la lana e ricomporla, ritesserla – lana di vecchi pullover, magari ancora impregnati del calore dei corpi, quella vecchia lana che conserva le maglie e le curvature, cioè la memoria, e non puoi più raddrizzarla. Questo è mostrare la memoria dell’uso, memoria di un lavoro che si perde… Amo sempre guardare le donne che lavorano a maglia, oggetto di solito di uno sguardo ironico e crudele da parte degli uomini. Uso di tutto, anche bottoni colorati, non butto via niente, tutto si può riciclare, come in cucina, e questa economia è naturalmente anche un’idea di mondo, una politica”.
Parliamo ancora della guerra. Le opere di Annette dicono la povertà, per esempio quella dei profughi, delle palle fatte di stoffa come quelle che si usavano anche da noi in tempo di guerra. Sono alcuni dei materiali e immagini del mondo che entrano a far parte delle sue opere. E che non hanno bisogno di definizioni speciali, né di un posto a parte nella storia dell’arte. “Gli artisti non hanno la pretesa di cambiare il mondo – dice – ne fanno parte. Sappiamo che moriremo, ma a differenza degli animali sappiamo anche di  far parte di una catena di trasmissione umana, che continuerà dopo di noi, e di cui abbiamo responsabilità. C’è una continuità dell’arte nel parlare dei grandi problemi, quelli fondamentali, la vita, l’amore, la morte… E allora parlare di evoluzione, nell’arte, non ha senso, per me non c’è differenza tra arte moderna e arte antica…”
La vostra arte è un misto di documentario e di finzione, e tocca il mistero dell’autobiografia…
“Sì, c’è l’artificio – risponde Boltanski. La mostra di Siena è per me è “il tempo della vita”, il tempo della mia vita. Comincia e finisce coi bebè, fino all’ultima sala che si apre alla luce coi bimbi appena nati, ma sembrano cadaveri. Le vetrine mostrano tutti i documenti della mia vita, quello che resta, attestati di quanto è accaduto, lettere d’amore con altre burocratiche e di lavoro. Le targhe di metallo con le date sono gli amici morti, ciò che resta di una vita, il racconto più corto. C’è una fotografia in cui si sovrappone il mio volto di bambino e il mio volto quarantenne. Abbiamo tutti un bambino morto dentro di noi, è la prima cosa che muore. E sull’autobiografia vorrei dire questo: quando le leggiamo, o anche quando si legge Proust, la vita di chi scrive diventa la vita di chi legge. Il sé diventa gli altri, che vi si riconoscono coi propri ricordi. E’ la funzione dell’arte. Ogni foto di bambino può far dire: ‘sì, mi ricordo di quando ero alla spiaggia’, oppure: ‘mi ricorda mia nipote’… L’artista diventa specchio e desiderio degli altri, diventa gli altri, non ha più esistenza propria, ma solo lo sguardo altrui. Non si può creare che scomparendo. Non si può ritoccare il proprio quadro. Se c’è Dio, Egli è scomparso nella creazione. E se Dio è assente, tocca agli uomini di fare…
Sorridendo, dice Annette del suo compagno: “Le due esposizioni insieme sono riuscite a sorprendermi per le loro analogie e somiglianze. Di solito le mie mostre non sono considerate molto allegre, o magari allegre a metà. Ma di fianco a quelle di Christian, sembrano quasi gioiose…” A sua volta, Christian parla di Annette come di “una piccola strega”, capace di giocare con la memoria e di fare con tanta più grazia e leggerezza le stesse cose che fa lui. Parliamo ancora di Shoah, dell’inutilità dei monumenti alla memoria, che servono solo a far dimenticare. Meglio lèggere, dice, i nomi dei deportati, affidare la durata e la memoria all’impermanenza dei nomi, piuttosto che al marmo. I nomi, capisco, sono per lui come i volti. Non si pronunciano invano, così come “non si guarda la gente come se fossero quadri” (ammoniva l’abate Pirard al giovane Julien Sorel ne Il rosso e il Nero). Ma se tutti guardassimo il mondo come un volto non esisterebbero guerre. Il volto, il nome e la morte ci rendono uguali e diversi, richiamano a una fratellanza universale, ricordandoci l’unicità delle vite e l’insensatezza di ogni guerra.

Beppe Sebaste