La felicità ogni volta di leggere un romanzo di Jean Echenoz è una di quelle esperienze che si ha voglia di condividere. Entusiasmano la sua disinvoltura nel giocare con le strutture narrative, per esempio del giallo (Jean-Patrick Manchette, autore di “noir”, fu uno dei suoi grandi amori letterari, colui che lo “autorizzò a scrivere”), oppure del cinema (come quello di Hitchcock), evitandone i cliché e le trame prevedibili; la sua capacità di pervadere la narrazione di un senso di mistero – un’intensità, una saturazione di senso come nelle poesie – che risveglia una clamorosa facoltà di attenzione nel lettore; la sua bravura, infine, nello scrivere storie che siano, proprio come quelle di Flaubert secondo Jean Echenoz (che non a caso l’altra sera ha letto pubblicamente a Roma, a Villa Medici, alcune pagine di Bouvard et Pécuchet), al tempo stesso buffe, commoventi, drammatiche. Tre attributi che valgono per ogni pagina di Echenoz. A cui aggiungo quel tratto quasi filosofico che hanno i grandi scrittori nel mostrare cose e situazioni che fanno scattare nel lettore una sorta di riconoscimento: “è così, è proprio così”. Le avventure in cui i personaggi di Echenoz si giocano le loro esistenze – amori, fughe, sparizioni, perfino omicidi – ci dicono una verità intima e universale, la drammaticità spesso nascosta della condizione umana. E lo fanno con un linguaggio rigoroso, musicale, perfetto.
Detto questo, non mi stupisce che, pluripremiato in Francia, non sia (ancora) in Italia conosciuto dal pubblico: basta considerare la situazione “televisiva” delle nostre grandi librerie, dove l’unica cosa che manca, o è in esilio, è spesso proprio la letteratura. Autore (dal 1979) di dieci romanzi tutti pubblicati dalla prestigiosa e austera Minuit (la casa editrice di Samuel Beckett), in Italia era stato tradotto prima da Einaudi (Un anno e Me ne vado), poi da una piccola casa editrice di Pistoia, che ha proposto con un titolo non troppo azzeccato (Le biondone) uno dei suoi capolavori (Les grandes blondes: “Alte e bionde”). Per questo mi ha dato sollievo che un editore come Adelphi abbia deciso di proporre al pubblico italiano il suo ultimo romanzo, Ravel. Con la speranza che diventi presto la sua vera casa – editrice.
Ho chiacchierato a lungo in questi giorni con Jean Echenoz, invitato a Roma dall’amico scrittore Olivier Rolin al ciclo di letture a Villa Medici “Amare la letteratura”. La prima cosa di cui abbiamo parlato è la disabitudine a scrivere a mano. Ravel, il suo ultimo romanzo dedicato al grande compositore del Novecento, ci dà l’occasione di parlare dell’irruzione delle vite reali nel romanzo. La sua musica, opere e concerti, Echenoz la ascoltava in casa fin dall’infanzia, insieme a quella di Stravinskij, e lo emozionava molto. “L’idea di partenza – mi dice – era di scrivere su Maurice Ravel un romanzo d’invenzione. Ero stanco dei romanzi che avevo scritto finora, volevo qualcosa che accadesse in un tempo e spazio diversi da quelli in cui di solito scrivo, cioè il presente. Mi è venuta voglia di parlare degli anni Trenta, inventare una storia in cui intervenissero persone reali, come il musicista Ravel, con personaggi inventati. Non ha funzionato. Nello stesso tempo mi rendevo conto che, per usarlo come personaggio, dovevo documentarmi sulla sua vita. Conoscevo soltanto la sua casa di campagna, molto interessante. Ho cercato di leggere tutto quello che trovavo, e ne ero sempre più intrigato. Ho deciso di scrivere solo su di lui, e nel farlo ho vissuto una strana esperienza: più cose imparavo, più mi avvicinavo a lui, più lui si allontanava da me, come se fosse impossibile stabilire una relazione intima, e la distanza restava permanente. Era questa la situazione romanzesca in cui mi trovavo: la distanza, il mistero che Ravel faceva sorgere intorno a sé e addirittura ispessire. Ravel è un personaggio contraddittorio, mondano e insieme solitario, anche la sua vita amorosa era un mistero totale, e ancor più conturbante è il fatto che abbia composto un’opera musicale magnifica, ma quasi oscurata, mascherata, da una cosa estemporanea e scherzosa, d’occasione, che ha coperto tutto col suo successo – parlo del Bolero. Buffa situazione, no?”
“Ho cercato di scegliere uno spazio di vita. Biografie di Ravel ce n’erano già, come quella scritta da Marcel Mornat, che ho incontrato. La vita intera non mi interessava. Ho deciso di trattare la sua tournée americana, poi gli ultimi dieci anni, quelli della gloria (il viaggio in America fu la sua consacrazione) fino alla sua fine terribile, anch’essa un mistero – medico. Quanto al perché abbia voluto situare una storia negli anni Trenta, lo so solo confusamente. E’ un periodo inquietante, anche a parte la politica. Sul piano della creazione artistica c’è un’effervescenza stupefacente, coi Surrealisti coesistono forme classiche, in America William Faulkner rivoluziona il romanzo, e analoghe trasformazioni investono le arti e la musica”.
C’è molto, molto humour in Ravel, e anche, al solito, molta intensità. Il fatto è, gli dico, che lui è uno scrittore che non scrive mai “con” le parole (che è quanto di peggio si possa dire di uno scrittore, e ce ne sono tanti), ma scrive parole, frasi, che danno un piacere del testo simile a quello che chi ama la musica prova a un concerto. “Il criterio è proprio questo – dice Echenoz – il criterio assoluto è la forma, il ritmo della lingua, in equilibrio con la storia che racconto. E’ importante che vi sia un suspense permanente, una sospensione del senso che catturi già nello spazio di un capitolo, di un paragrafo, di una frase. Un suspense che tenga il lettore (ma anche chi scrive) in uno stato di veglia costante. Amo vivere quella situazione eccitante in cui ogni elemento del racconto diventa un problema algebrico da risolvere nel modo più semplice, nella concisione e nel ritmo”. Forse è giusto dire alcuni scrittori che ha amato: oltre a Flaubert, oltre a Manchette, parliamo di Raymond Queneau, Raymond Roussel, Georges Perec. Beckett, naturalmente. E l’italiano Cesare Pavese.
Gli cito a memoria un brano di Un an, quando il viaggiatore, una donna, guarda il paesaggio dai vetri del treno, e la descrizione ha la stessa forma della musica del viaggio, in realtà una fuga, in una coincidenza perfetta tra atto percettivo e atto verbale – “quel panorama senza fissa dimora che declinava soltanto le proprie generalità, non più paesaggio di quanto un passaporto sia una persona (…) L’ambiente pareva messo lì in mancanza di meglio, tanto per riempire il vuoto aspettando un’idea migliore”. E’ buffo, dice, ha ricordato quel suo brano proprio l’altro giorno, viaggiando in treno. Parliamo della fatica di scrivere, un atto fisico che mette alla prova la testa e il corpo. “Anche questo è il motivo della fissazione su Ravel: ho imparato molto sulla sua passione di lavorare. La sua musica trasmette un senso di grazia, fluidità, facilità leggerezza, ma è in realtà il frutto di un lavoro estenuante. E’ questa la realtà del lavoro creativo. Scrivere è poi un lavoro in cui uno deve sempre cavarsela da solo, bisogna risolvere tutto da soli. E’ così in generale per gli artisti, ma se in altri ambiti si può chiedere un avviso, nello scrivere ci si deve arrangiare.” Parliamo anche della paura del fallimento, di non riuscire, cui alla fine ci si abitua, fino ad averne quasi bisogno. “Una delle ragioni per cui ho scritto Au piano, storia di un interprete, un pianista, non un compositore, è perché mi interessava la situazione di qualcuno che deve far vivere un’opera non sua, obbligandosi però a esibirsi mentre la decifra, la fa vivere incarnandola. Ecco, questa mi sembrava una situazione abbastanza drammatica”. Forse i romanzi di Jean Echenoz offrono proprio questo movente alla letteratura: mostrare le situazioni drammatiche che il senso comune non conosce, che non vengono normalmente prese in considerazione.
“Oggi – mi dice – ho voglia di occuparmi di vite reali come se fossero inventate, trattandole in modi romanzesco. Mi stimolano molto di più delle finzioni.” “Quando è uscito Ravel, alcuni critici hanno scritto che avrei fatto un autoritratto mascherato, ma non è vero, non ho mai avuto questa intenzione. Tuttavia è vero che non l’ho scelto per caso, non è mai un caso, e che certi tratti del personaggio mi toccavano molto.”
Parliamo di Les grandes blondes, forse il mio romanzo preferito. Anche lui lo ama particolarmente. E’ nato da un fallimento: Serge Daney, il critico cinematografico, gli chiese di scrivere qualcosa per la rivista di cinema Traffic. Jean provò a scrivere sulle attrici (bionde) dei film di Hitchcock, ma non ci riuscì. Pensò allora che tanto valeva scrivere sull’impossibilità di scrivere sulle attrici bionde di Hitchcock in un romanzo, dove una specie di produttore (che soffre di vertigini, la paura del vuoto) deve fare una serie televisiva sulle attrici bionde, ma non ne viene a capo. La macchina narrativa del romanzo lo mette in connessione con la vicenda di una donna alta e bionda (il cui malessere è il niente della vita) che fugge da un capo all’altro della Francia uccidendo i suoi molestatori. Fino al meraviglioso finale – l’amore ad una vertiginosa altitudine – che le parole condensano più o meno così: Lui non aveva più paura del vuoto, lei non aveva più paura di niente.
Beppe Sebaste
(Uscito su L’Unità, 29 marzo 2007)