Il 2 gennaio Mary Cateryne Bateson, figlia di Gregory e coautrice di molti degli scritti del padre, ha lasciato il suo corpo. Pochi, l’hanno ricordata, forse nessuno (in Italia) eppure è stata una delle scrittrici e maestre di pensiero più empatiche e brillanti. Qui di seguito propongo l’articolo/intervista che seguì il nostro colloquio, e in cui ritrovo contenuti e affermazioni che mi fanno capire, dopo anni, di quanto io sia stato debitore nella mia scrittura della ventata di coraggio che avevo ricevuto proprio da lei (penso alla narrazione tra biografia, autobiografia e detection che scrissi anni dopo nel mio libro H. P. Per esempio, e alla pacata certezza di M. C. Bateson nell’affermare che la divisione tra privato e politico (o pubblico) fosse una forzatura ideologica non connaturata alla vita umana. Il pezzo che qui propongo fu ospitato, come quasi sempre a quell’epoca, dalle pagine meravigliosamente accoglienti e innovative curate da Stefania Scateni su l’Unità.
INTERVISTA A M. C. BATESON
Dall’ecologia del padre alle biografie aperte. A colloquio con Mary Catherine Bateson – Dividere il privato dal politico non è connaturato alla vita umana – Le metafore sono importanti. Ci permettono di giocare ruoli cangianti nel ciclo dell’esistenza
Se penso all’ampio, meraviglioso lavoro di Gregory Bateson – in parte ripreso dalla figlia Mary Catherine – quello che subito e più fortemente mi viene in mente è il risveglio dell’importanza della metafora e del processo di metaforizzazione, quindi della liricità e della poesia – della cosiddetta ambiguità – nell’ambito delle spiegazioni scientifiche: della mente, della natura, del mondo stesso. È stata una rivoluzione nella storia delle idee. Non solo, dopo il suo lavoro, viene a cadere il fondamento della separazione tra ambiti disciplinari, ma sappiamo che la scienza non può evolversi e dispiegare le proprie potenzialità descrittive senza annettere nel proprio linguaggio e nei propri orizzonti la sfera dell’estetica, e quindi anche quella del “sacro”. È questo, molto succintamente, il significato di «antropologia» e, più precisamente, di «ecologia» (della mente), re-inventato da Bateson.
Nei suoi libri, soprattutto nei suoi testi detti «metaloghi», vera e propria intelligenza in atto, possiamo attingere a un modello integrale di educazione. Da un intrico di osservazioni – dalle traiettorie del volo del falco al filo d’erba, dai funerali balinesiani alle sedute dell’Anonima Alcolisti, dalla cibernetica alla biologia, dal rito ai paradossi, eccetera – fluisce un’educazione alla verità viva e pulsante del mondo – mente e natura – la cui formulazione più celebre è quella della «struttura che connette», proseguita da sua figlia nella direzione della biografia, del comporre la vita.
Quella di Gregory Bateson è un’arte della connessione e della flessibilità (non c’è definizione migliore della filosofia), modello di interdipendenza di tutto con tutto paragonabile, collegando contesti lontanissimi ma in fondo analoghi, a quello religioso e millenario del buddhismo, e a quello settecentesco del materialismo enciclopedico di Denis Diderot. Paragone, d’altronde, valido anche sul piano dell’espressione e della scrittura. Se «Perché le cose finiscono in disordine?» è il titolo di uno dei metaloghi più illuminanti di Bateson, l’illuminista Diderot paragonava i propri dialoghi filosofici, e lo statuto della «verità» in essi posto in atto, al carattere eteroclita dei sogni di un malato in delirio. La letteratura del buddhismo zen – una specie di grammatica dell’ineffabile – disegna un analogo ordine/disordine capace di trasformare le contraddizioni in sinonimi, il caos nel cosmo. Anche nel libro Dove gli angeli esitano, nel «metalogo» sul concetto di tautologia (scritto quasi interamente da Mary Catherine sulla base di appunti lasciati dal padre), sembra intervenire nel pensiero di Gregory un nesso, che ho spesso intravisto, tra il suo pensiero e il buddhismo: il mondo è il questo, la sua «talità», la sua «evidenza», il mondo è il mondo, i teoremi sono già negli assiomi, le risposte sono già nelle domande. Erede di questi paradigmi, figlia di Gregory e dell’antropologa Margaret Mead, Mary Catherine Bateson lavora da anni in una direzione personale, al confine tra scrittura saggistica e narrativa. Le «biografie aperte» inaugurate dal suo Comporre una vita (del 1989) e di recente al centro del suoFull Circles, Overlapping Lives…, raccontano vite reali e contemporanee, e allo stesso tempo fanno l’elogio della flessibilità e della creatività nella vita, «tentativo di collegare l’esperienza personale con le idee astratte», e «la conoscenza con l’amore».
Convinto io stesso che occorra personalizzare le proprie idee e linguaggi, e non separarle dai contesti di vita in cui prendono corpo, quando incontro e dialogo con Mary Catherine Bateson, non esito a riferirle alcune mie attuali «sovrapposizioni»(overlapping). Le parlo di come mio figlio, e soprattutto mia madre, anziana e invalida, di cui attualmente mi prendo cura, orientano sensibilmente il mio modo attuale di pensare e dialogare. Data questa premessa le chiedo dì esprimersi sui motivi del crescente interesse per le tematiche della «biografia» (anche James Hillmann, ne ha scritto ne Il codice dell’anima; e io stesso accarezzo un progetto di scrittura su vite anonime ed esemplari). E’ forse la fine della distinzione tra «personale», o «privato», da una parte, e «politico», «pubblico», dall’altra? Ed è auspicabile l’ingresso sulla scena della politica di problematiche personali e private?
Dice Mary Catherine: «Penso che una netta distinzione tra personale/privato e politico/ pubblico non sia qualcosa di universalmente connaturato alla vita umana, ma una costruzione culturale che si collega all’esclusione storica delle donne dalla partecipazione alla sfera pubblica. Idealmente gli individui agiscono e creano nella pienezza della loro esperienza, compresa l’infanzia, il loro essere genitori, le storie d’amore, le attività dì svago così come le esperienze formali a scuola e al lavoro. Fare di meno, funzionare meno di una persona completa e parcellizzare quello che abbiamo imparato è semplicemente un’inutile perdita di tempo. Così l’interesse contemporaneo per la biografia e l’autobiografia deve svolgere un lavoro di comprensione che si sviluppi nel tempo su chi siano realmente le persone che agiscono nel nostro mondo. Se tu fingessi che tuo figlio e tua madre siano irrilevanti rispetto a questa intervista, faresti qualcosa di falso e allo stesso tempo diminuiresti te stesso e i tuoi risultati». E ancora, per quanto riguarda la politica, continua Marie Catherine: «C’è tuttavia un continuum piuttosto che una distinzione. Una certa privacy andrebbe rispettata, e ognuno di noi dovrebbe coltivare la capacità di mettere da parte i problemi personali per funzionare efficacemente».
Parliamo di educazione. Per quanto io pensi che un’educazione come quella di Bateson sia addirittura urgente, sono piuttosto pessimista quanto alla sua realizzazione nella nostra società governata dalla logica di un capitalismo, oggi globale, che non cede neppure di fronte ai più evidenti squilibri ecologici. «Educazione – risponde Marie Catherine -. educazione è una fase in un processo di apprendimento che dura tutta la vita, che dipende dall’osservazione e dalla riflessione. Troppa educazione è passiva e con l’unico scopo di preparare gli individui a una docile accettazione delle strutture economiche e politiche». Lei, che ha avuto genitori francamente eccezionali, si pone il problema di chi cresce in famiglie e contesti mediocri o difficili, anche se il suo libro Comporre una vita tratta di quello che gli individui creano nella loro vita, e non ha a che fare col loro punto di partenza. «Ma se una società garantisce risorse e opportunità per tutti – continua – ovviamente ci sarà un ampliamento della creatività».
Parliamo ancora dell’importanza della metafora, cori un’avvertenza per il lettore: non bisogna confondere il processo di metaforizzazione messo in valore da Bateson per la comunicazione e l’ecologia della mente, col «regime metaforico» la cui prevalenza è alla base della nostra alienazione contemporanea, e che ci porta, per dirla con le parole di Luisa Muraro (autrice del bellissimo saggio politico su metafora e metonimia, Maglia e uncinetto) a «vivere per interposta persona». Le metafore di cui parlo con Mary Catherine Bateson hanno piuttosto a che fare coi bambini, e con la frequentazione degli anziani, delle loro sindromi dette «degenerative», spesso «deliranti». Ecco, è in riferimento ad essi, bambini ed anziani, che mi accorgo con una certa commozione dell’importanza della «metaforizzazione» per la propria vita e sopravvivenza. È possibile diffondere questa consapevolezza, e fare degli anziani, «improduttivi» e quindi emarginati dal circuito di valore della nostra civiltà capitalistica, dei maestri di vita da rispettare e da amare?
«Questa è una domanda molto interessante – risponde la Bateson – che in realtà ha a che fare col fatto che diversi tipi di intelligenza e diversi tipi di conoscenza giocano ruoli canonici nel ciclo della vita e sono valutati in modi diversi, e in modi che spesso deprimono il potenziale umano. Conosco alcuni interessanti lavori fatti con gli anziani, nei quali è stato loro possibile (forse per la prima volta nella vita) di dipingere e disegnare, permettendo loro di esprimere se stessi anche quando la memoria verbale viene a mancare. Uno psichiatra o un poeta deve pensare sempre metaforicamente – un ingegnere o un idraulico forse no – e anche un architetto deve pensare e comunicare in entrambi i modi. Credo che la migliore preparazione per gli eventi imprevisti della vita sia mantenere una varietà di interessi e modi di pensare».
(uscito su l’Unità, 4 settembre 2001)
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