(l’Unità, 22 maggio 2004)
“La mia patria non è un’azienda / non è un franchising la mia famiglia / e la mia casa non assomiglia / né a una holding né a una Spa (…) Se son depressa non faccio shopping / vado a parlare con un vicino / e le domande sul mio destino / non vado a farle al Costanzo Show (…) Scorron neuroni nelle nostre menti / che parole voglion diventar…”
Con questo “canto della Resistenza”, all’inizio dello spettacolo di Sabina Guzzanti Reperto R(a)iot, si evoca da un futuro remoto l’epoca della lotta contro un regime, mediatico e non solo, chiamato “ventennio” in assonanza a un precedente regime, di cui però sarebbe stata cancellata ogni traccia. L’idea, ricorrente nello spettacolo, di un “Museo della Resistenza” (suggeritale, dice la Guzzanti, da Furio Colombo) permette il recupero di un repertorio di canzoni partigiane che danno la sveglia al pubblico con la loro attualità. Nella serata di cui ero spettatore (a Bologna), a intonare insieme all’attrice “Siamo i ribelli della montagna” c’erano le voci degli Ustmamò, un gruppo vocale della “scuola” di Giovanni Lindo Ferretti. E, tra il pubblico, quella del sottoscritto.
L’evocazione della “strage di parole” di questi anni – giustizia, verità, sogno e troppe altre – che compaiono sulle bianche lapidi del cimitero di parole proiettato sul palco, giustificherebbe già questa intervista. Alla fine della strage, recita Sabina, durante il Regime rimasero solo due parole: “pizza” e “bancomat”, oltre ai giorni della settimana. Coincidenza vuole che lo stesso giorno abbia riletto un vecchio racconto di un giovane scrittore (Roberto Parpaglioni) che parla di un mondo in cui il governo decide di vendere tutte le parole; che da allora, privatizzate, sono proibite come i romanzi in Fahrenheit 451. Il protagonista della storia, come già i partigiani, si nasconde “Oltre i monti” (che è poi il titolo del racconto). Più tardi, quando parleremo a tavola, Sabina citerà invece George Orwell e la sua descrizione del mondo totalitario in 1984, basato sulla distruzione degli archivi, della memoria e del linguaggio: “non solo le cancellazioni di ciò che è stato detto (esempio folkloristico, la cancellazione nel sito della Padania degli insulti di Bossi a Berlusconi, come “mafioso”), ma soprattutto quello che Orwell chiamava ‘bi-pensiero’: l’obbligo di dire e di pensare contemporaneamente una cosa e il suo contrario. Come oggi chiamare pace la guerra”.
Ho già scritto una volta che amo Sabina Guzzanti sia quando legge il compassionevole Sutra del Loto buddhista, sia quando mette la sua radicalità e il suo talento al servizio di un’altra evidenza, la denuncia del regime in cui viviamo. Regime anche linguistico, fagocitante, quasi un regime di satira autoreferenziale permanente. E che pure ha censurato con violenza la sua satira, negandole l’appartenenza al genere. Ma cosa è satira? E’ poesia e invettiva. E fa riflettere che essa abbia da tempo preso il posto della politica, non per sua scelta. Queste pagine hanno indicato alcuni motivi: il fatto che troppo spesso la sinistra condivide il linguaggio e gli ordini del giorno della destra (il suo “regime” di marcia), e rinuncia, per tattica o “riformismo”, a dire e vedere che “il re è nudo”. (Mi viene in mente il D’Alema imitato dalla Guzzanti con feroce bravura, che spiega che “non si può mettere uno di sinistra a capo di un partito di sinistra: la gente non capirebbe”). Proprio perché riporta all’attenzione l’evidenza (come, in R(a)iot, il discorso di Berlusconi che alterna la voce di imprenditore milanese a quella di mafioso siciliano, senza soluzioni di continuità), la satira di Sabina Guzzanti è il grido eretico, come nella favola, di chi per innocenza o radicale opposizione non riesce proprio a stare al gioco. Per questo i suoi monologhi sembrano a volte poco satirici, sembrano e forse sono descrizioni lineari di cose e fatti, e la loro caricatura della realtà politica consiste nello sbarazzarsi delle caricature che alla realtà già gravano addosso, nel rappresentarla nuda, senza le barocche deformazioni della menzogna. Ciò che oggi è inaudito. La satira di Sabina Guzzanti è la voce paradossale dell’in–fantia, linguaggio degli esclusi dal linguaggio: verità. E come ogni autentica poesia provoca un sorriso della mente in chi ne riconosce l’effetto, lo choc estetico e morale del riconoscere la parola giusta. A un certo punto dello spettacolo Sabina Guzzanti cita Pasolini. E si capisce che il paradigma stilistico-morale del suo teatro (poesia e invettiva), non è soltanto il Brecht più generoso, ma quel celebre gesto di giustizia poetica che Pier Paolo Pasolini affidò a un testo profetico negli anni Settanta: “Io so. Io so chi sono i mandanti delle stragi. Lo so anche se non ho le prove. Lo so perché sono un intellettuale…” La denuncia infondata, senza prove giuridiche, viene sostenuta da qualcosa di più potente, una responsabilità intellettuale e morale (profetica). E’ questa eresia che lo spettacolo di Sabina Guzzanti vuole prolungare. E lo fa, se posso dirlo, in uno spettacolo davvero molto bello.
Adesso siamo a tavola, e Sabina e io ci aiutiamo a parlare col cibo e col vino. Le dico che molti, in queste interviste, si sono espressi sul paradosso tutto italiano del re che è anche il buffone, e ruba il mestiere ai comici…
“Per me – risponde – si tratta solo di purissima prepotenza. Uno che vuol sempre fare il padrone di casa e impone a chi non gli va le sue barzellette. Non può non sapere che mette in imbarazzo gli altri capi di stato. Impone, come Nerone, di ascoltare la sua musica. E se la sinistra è succube è perché non ha veramente interesse a contrastarlo. Di fronte a un prepotente uno non si mette a disquisire dicendo ‘non sta bene che si raccontino barzellette’. Raccontale pure, direi, ma risolvi il conflitto di interessi. Invece continuano ad andare da Vespa legittimandolo, come hanno legittimato Berlusconi. La destra non andava da Santoro, e Vespa si difende citando tutte le volte che D’Alema e altri partecipano e avallano la sua trasmissione. Che raggiunge sempre nuove punte di tracotanza, come nella recente vicenda del Tg3 sulla tortura… Il fatto è che si sono appropriati del linguaggio, che come in Orwell è diventato il massimo strumento di potere, indipendentemente dal suo essere vero o falso, documentato o no. L’unica cosa che conta è la proprietà della Parola, che esclude chi non ha voce.”
Sappiamo entrambi che tutto questo, le dico, non è cominciato con Berlusconi, e che da tempo le parole hanno perduto la loro salute mentale, come scriveva James Hillmann…
“Berlusconi – riprende Sabina Guzzanti – per istinto si è buttato in una situazione che c’era già, anche se le sue tv hanno da anni contribuito all’ottundimento. Ci si è buttato per vendere detersivi, non per conquistare il mondo, chiedendosi che programmi poteva fare per vendere scope e detersivi”. (La tristezza del constatare che questo programma lo ha portato ad avere il massimo potere, mi fa venire in mente questo frammento detto in scena da Sabina: “che uno voglia diventare padrone del mondo è clinicamente possibile, che 56 milioni di persone lo seguono è un po’ più difficile da spiegare (…) L’Italia è il maggior consumatore di psicofarmaci dopo gli Stati Uniti, con un altissima percentuale di gente fuori di testa…”). “Ma la malattia mentale è in realtà malattia delle parole, della comunicazione, incapacità di verbalizzare le emozioni e i sentimenti a forza di imitare, di indossare identità altrui, di non saper più vivere una vita che guardiamo invece miniaturizzata nei reality show, una realtà senza senso che sopravvive incorniciata in tv. Prima si stava in casa, si mangiava un panino, si faceva sesso, adesso guardiamo alla tv delle persone che stanno in casa, fanno sesso, mangiano un panino… Se poi uno dice di non godere di questo spettacolo, gli si risponde che allora ha un problema più grosso”.
“E a proposito di satira – continua Sabina. I più stronzi dicono: ‘noi non facciamo satira, facciamo comicità pura’. Ma ciò che fa le parole sane, come dicevi tu, è l’intenzione con cui le si pronunciano. Il linguaggio in sé è uno strumento creativo che si autogenera, è infinito, si inventa continuamente. E il suo senso è dato dall’intenzione, dal motivo per cui si parla. In questo sono assolutamente buddhista. Il modo cioè per restituire salute mentale alle parole è chiedere a che pro dici quello che dici, perché lo dici: per desiderio di prevaricazione, per salvarti il culo mentre tutti gli altri stanno affondando, eccetera. Oppure per contribuire in qualche modo a qualcosa, o ancora per la semplice gioia di esistere, o per mille altri motivi. Ma quasi tutte le parole pronunciate in tv sono finte, il motivo per cui vengono pronunciate non è quello che tutti fingono di considerare come vero…”
Le chiedo se ci sia differenza tra il suo modo di fare teatro e di fare televisione: “Teatro e tv li ho coltivati insieme, parallelamente – risponde Sabina. Le differenze le ha assimilate l’esperienza, ed è nel pubblico. Quello della tv è passivo, e quindi devi ricorrere a qualche trucco in più. In teatro non mi trucco, mentre in tv sono l’unica dopo Alighiero Noschese ad avere usato trucchi in lattice, rimettendo in moto un mestiere artigianale che si era perduto. La densità e complessità dei miei testi (all’inizio erano molto astratti, pochi li comprendevano) è bilanciata da questi trucchi artigianali e popolari, come la somiglianza coi personaggi… La parodia è presente in tutti i miei spettacoli, sia teatrali che televisivi, che coesistono nell’esasperare le finzioni, non solo televisive (come in R(a)iot, quando si immagina che per commentare l’obbligo per tutti della prima comunione con l’ostia consacrata, Vespa intervisti allegramente un nutrizionista). Le cose evidenti non vengono mai chieste. Fare parodia della finzione che si spaccia come vera, e mostrare invece l’ovvio che non viene pronunciato. Chi ha la parola decide. In Raiot, alla Rai, la parola è andata a chi non doveva averla, che ha detto in Tv cose vere e documentate, e per questo ha fatto scattare la censura, perché le cose evidenti non si possono dire. Per la destra non era più satira, ma diffamazione. Per la sinistra erano cose banali che tutti sapevano. Nessuno ha alzato un dito. Chiudere un programma dopo una sola puntata è la cosa più sfacciata che si sia mai fatta in questo regime mediatico. La motivazione ufficiale era che esponeva la Rai a rischio di querela. Ma ora che il giudice ha accertato che le querele sono prive di fondamento, nessuno ha chiesto di rimetterla in onda”.
A un certo punto riusciamo a parlare di parole felici, di ispirazione, forse addirittura di compassione. E mi piacerebbe che l’intervista cominciassse adesso: “Mi piace guardare – dice Sabina Guzzanti – osservare le dinamiche dei dialoghi della gente, capire cosa c’è dietro le parole. Mi piace ascoltare quello che le persone dicono. Mi piacerebbe filmare, ricostruire i loro racconti ri-raccontandoli, appropriarmene così, riscrivendoli. Mi interessa vedere come uno esprime quello che crede di essere, come lo dice, e ho voglia di recuperare questi materiali. Le pose, i modi in cui tutti aggirano gli ostacoli della rappresentazione, in cui entrano ed escono dalla commedia della vita. I modi in cui tutti siamo prigionieri di un silenzio segreto, anche se sappiamo che i segreti sono le uniche cose che si vedono. Io ho cominciato come attrice. Ho cominciato a scrivere dopo. Ho deciso di fare l’attrice per sfuggire, recitando varie parti, alla recita della vita. Poi ho scoperto che naturalmente non è così, non si è mai liberi dalle forme, e per quanto abbiamo potuto sfidarle e assumere tanti modi e operato tante rotture, si trattava sempre di rotture recitate e non di una reale libertà. Avevo idee molto romantiche, un teatro alla Mejerchold, dove tutto le espressioni fossero insieme, e ho cominciato a scrivere sfidando una grande insicurezza, anche se ora mi viene facile. Improvviso molto, anche. Una cosa di cui sono contenta è il mio libro-diario, perché è sia una spiegazione teorica che una forma che coincide con l’elaborazione teorica. E’ ipersincero, anche se non è un vero diario scritto giorno per giorno. E’ stata per me una svolta riuscire a fare il punto in un libro dandogli forma e senso, una circolarità. E quando chiudo un cerchio che ho formato provo molta felicità.”
Beppe Sebaste