“Io morirò”… (Scrivere, morire, padre, madre, sé – Tolbiac, Fallire, etc.)

Non so di preciso come mai ieri sera mi sia venuto in mente di aprire e sfogliare un mio vecchio libro, il “romanzo” Tolbiac (Baldini&Castoldi 2002, dopo aver lasciato Feltrinelli), cercando proprio queste  pagine (214 e sgg.), che aprono il capitolo che dà il titolo al libro, Tolbiac. E che parlano della propria morte, via la morte del padre.

Subito dopo ho ripreso alcune delle pagine sulla madre (sulla malattia e la morte della madre) che compongono un lungo capitolo del mio Fallire. Storia con fantasmi (Amazon 2015) –  Lo svuotamento della casa dei miei genitori e la prima volta dell’Ombra (pp. 70 e sgg.) – per coglierne le continuità e discontinuità, e le eventuali evoluzioni (non mi pare).

Tolbiac l’ho scritto tra 1999 e il 2001, ma era iniziato nel 1995.  Vorrei riscriverlo. Fallire è iniziato nel 2005/06 ma alla fine l’ho scritto davvero nel 2013 circa. Anch’esso non cesso (e non cesserei: per fortuna è prevalentemente in formato e-book) di correggerlo. Entrambi sono in qualche modo incompiuti. Nel frattempo, il tema della morte dei propri genitori, sola inaugurazione dell’età adulta, ormai spostata nella maturità dopo un’interminabile adolescenza, è diventato un tema trasversale, nel cinema e nella letteratura. Vedi Nanni Moretti, per esempio. È un dato sociologico. Ma è semplicemente la vita, quello che conta, uguale e sempre nuovo in ogni narrazione, come lo sbocciare dei fiori e il tramonto che incendia i cieli. Nascere e morire non finiscono mai. Alludono a una trascendenza dove il nascere e il morire sono molto trasformati e forse scompaiono. Ma qui non mi ci inoltro. Il capitolo attiguo a quello sul morire, in Tolbiac, e ormai verso la fine del romanzo, si intitola: Scrivere.

Va beh, non so se questi frammenti rendono e valgono una lettura, comunque eccoli.

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“Tolbiac” (2002), pag. 214

 

 

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“Tolbiac” (2002), pag. 215

 

 

[…]

C’è una bella differenza tra i figli che abitano con i genitori e quelli, come te, che avevano un genitore che abita da loro. Gli effetti sono opposti. La tua vita sociale ne era totalmente condizionata, e per di più in maniera ignota alla maggior parte della gente, visto che per forza di cose frequentavi pochissime persone. Ma c’erano dei momenti, come quando al pomeriggio tua madre si addormentava sul divano del tuo studio, e il volto le si distendeva e rasserenava, che nel silenzio della casa (la badante a riposarsi chissà dove, forse davanti alla tv) sentivi il privilegio di questa convivenza, di questo accompagnamento alla fine della vita che riassume la vita. Si addormentava lì, tra i tuoi libri, e nel silenzio tiepido del pomeriggio riuscivi a elaborare anche la sua morte.

A dire tutta la verità, adesso ti mancava perfino quell’ansia permanente e sotto pelle che caratterizzò per anni le tue giornate. Ti mancano le emergenze: supplire alla badante che era scesa per comprare il latte; portare la carrozzina dal meccanico delle biciclette, che di solito era chiuso, gonfiare le gomme, registrare i freni, aggiustare i braccioli; le corse in farmacia a comprare le medicine, e prima ancora dal medico per avere la prescrizione, ciò che spesso accadeva di domenica, oppure di sera. Ti mancano le telefonate surreali dell’“ufficio pannoloni” – una specie di call center situato chissà dove da cui chiamavano nei momenti più impensati – e i cui trasportatori scaricavano nei momenti e nei giorni più inattesi una piramide di scatole di traversine e pannoloni della misura sempre sbagliata, lasciandole nella hall del palazzo da cui le smistavi alla bell’e meglio sotto gli occhi dei vicini di casa. Ti manca l’apprensione continua, l’allarme invisibile che potevi avvertire una sera a cena con amici quando la badante – che avevi chiamato per puro scrupolo – non rispondeva al telefono; un’ansia come un sibilo, una zona morta, come un enfisema, che passava direttamente al cuore e al cervello. Ti manca il fantasma del dovere, quell’imperativo che nemmeno un figlio piccolo sa procurare – e un figlio, in genere, lo si condivide. Ma, a dire tutta la verità, queste sono notazioni solo superficiali e di colore, e dovresti parlare invece di una solitudine che non avevi mai immaginato.

Dire il dramma sordo delle badanti tra regolarizzazioni e clandestinità, tra speranze e abbandoni, uno scorcio di umanità così banalmente complicato da assomigliare alla versione da incubo di un serial televisivo, e che oscillava tra la comunità utopica e la guerra tra poveri. Dire che ogni giorno, come se il tempo si fermasse in seguito a una condanna divina o mitologica, per tua madre ricominciava daccapo e sempre uguale, salvo piccolissime variazioni: la colazione stanca e la malinconia precoce, la testa sulla mano destra (l’unica che poteva muovere) appoggiata al tavolo, la passeggiata pomeridiana a pestare le foglie morte del parco con le ruote della carrozzina, quindi lo sforzo di far scendere la carrozzina per le scale, tu e la badante. Poi di farla risalire. Dire l’impossibilità di non esserci, non essere lì, presente. Dire il brusio della televisione sempre accesa nel canale peggiore, quello delle soubrette e delle eterne risate (se le badanti votassero avrebbero tutte scelto Berlusconi). Come è possibile avere nostalgia di una vita strozzata?

È semplice: tua madre c’era, eri al servizio di una mamma bambina, da cui ricevevi la gratificazione di vederla viva e presente, la pelle delle guance ancora liscia e calda. Gli occhi. La voce. Una conquista quotidiana per la quale avevi rinunciato al tuo nomadismo, alle seduzioni, alla tua vita e al lavoro. Non più insegnamento al Collège International de Philosophie, ad esempio. E quando appunto tua madre si sedeva, mezza sdraiata, sulla poltrona o sul divano tra i tuoi libri – circostanza che dava qualche mezz’ora di libertà alla badante di turno – quando cadeva nel sonno, la guardavi come se fosse morta. Ecco, ti dicevi, ci siamo, devo farmi forza. E restavi a guardarla pensando alla fine.

Adesso ti mancava il risveglio da quel senso di lutto – il risveglio dalla morte quotidiana di tua madre, la dialettica di una fine ogni giorno affermata e superata, mai davvero oltrepassata, quotidianamente presente – adesso che tua madre era definitivamente assente.

   […]

da: Fallire. Storia con fantasmi (pp. 73-74)