Sei in compagnia di tua madre (e della sua badante dell’epoca, triste e muta), il giorno in cui gli aerei si conficcarono uno dopo l’altro in mondovisione dentro le Twin Towers, nel cielo grigiazzurro di New York. Era un martedì, primo pomeriggio, lo vieni a sapere per mail, poi lo vedi alla tv, nella stanza che era il regno diurno di tua madre e della sua badante. Incidente? No, guerra. Le e-mail si susseguirono, difficile restare spettatori soli e muti.
Di fronte alla ripetizione ossessiva delle immagini televisive, tua madre disse che voleva uscire di casa: non faceva differenza tra la “realtà” e la “televisione”, se pioveva in un film voleva dire che pioveva fuori, e giustamente aveva paura che la casa crollasse. Per ora erano le borse a crollare dappertutto come i grattacieli di Manhattan, e dopo le prime considerazioni condivise («gli americani vedono in casa propria e dal vero ciò che vedevano in tv quando lo facevano accadere in altre parti del mondo») sei testimone di un panico cieco, di una ferita e una piega del mondo che riguardava tutti. Avevi paura di una risposta altrettanto cieca e sbagliata, della Bomba, quella vera, che non lascia vincitori né vinti. Una paura che ti ricordava l’inverno nucleare di Reagan e Andropov. Forse il capitalismo planetario aveva già compiuto la svolta che lo fece diventare punk, all’insegna del no future, prima ancora di Putin, di George W. Bush e dei califfi dell’Islam. Ma chi era il «nemico»?
Intanto quelle icone reali e abitate di cui tutti avevano ricordi diretti o indiretti, quelle Torri continuavano a sbriciolarsi in mondovisione come nei fotogrammi seriali di Andy Warhol, avvolgendo nel fumo la città più simbolica del mondo. «Collasso», lo definì la CNN.
Ti scrisse Stefania da l’Unità: «Le prime immagini che ho visto in televisione mi hanno fatto pensare a Mars Attacks o ai film con Bruce Willis, come se fosse tutto finto». Nella tragicità di quello che stava succedendo si avvertiva un senso di irrealtà, come se l’America si fosse attaccata da sola, in una sorta di cortocircuito autoimmunitario. Come se stesse implodendo l’intero Occidente, il mondo globalizzato. Avevano chiuso le borse, stavano evacuando tutto, l’America era in stato di guerra contro ignoti. Avevi paura anche tu, e il fatto che si pensasse a dei film (americani) dava bene l’idea del corto circuito. «Se mi mettessi a pensare seriamente – le dici – mi verrebbe un elzeviro lussuoso e impubblicabile, parole che danzano sull’orlo dell’abisso». Ma non è il destino, sempre, di tutte le parole?
«Curioso, anche qui in redazione – rispose – si è parlato del danzare sull’abisso».
Che ne era delle parole, di quello che ci preoccupava fino a poco prima? Ha senso, in generale, quello che si dice? Tutto sembrava oscurarsi, come il cielo sopra Manhattan. La solitudine dei testimoni, l’impotenza delle parole di fronte agli eventi: era questa rivelazione a fare del linguaggio una danza sul vuoto. Forse tutta la vita è così, e solo quando qualcuno cade veramente dal ciglio del burrone o dall’ultimo piano del grattacielo ci stupiamo e spaventiamo. Come continuare a dire e a scrivere senza sembrare dei dottor Stranamore? Un’altra amica, una giovane giornalista finanziaria, si accorse che i suoi abituali interlocutori d’oltreoceano erano tutti morti, come quelli della banca d’affari Morgan Stanley, alloggiati nelle Twin Towers. Stefania ti mandò un ultimo messaggio: «Dicono che i morti sono migliaia».
Di fronte all’apocalisse in tv, tua madre che non voleva quasi mai andare fuori insisteva adesso per uscire, per paura che tutto crollasse. Solo il primo piano di un uomo barbuto la rasserenava: ti chiese chi fosse quel “bell’uomo” dallo sguardo dolce. Era Osama Bin Laden, che la tv mostrava tra una ripetizione e l’altra del crollo delle Torri.
Finalmente la spegni. Fu la rivincita del reale fattuale contro il suo clone o simulacro. Esci a camminare nel parco con tua madre e la badante. Il verde degli alberi era bello e fresco, tua madre si abituò all’idea che la casa non crollasse, anche perché presto si era dimenticata di tutto.
C’è una bella differenza tra i figli che abitano con i genitori e quelli, come te, che avevano un genitore che abita da loro. Gli effetti sono opposti. La tua vita sociale ne era totalmente condizionata, e per di più in maniera ignota alla maggior parte della gente, visto che per forza di cose frequentavi pochissime persone. Ma c’erano dei momenti, come quando al pomeriggio tua madre si addormentava sul divano del tuo studio, e il volto le si distendeva e rasserenava, che nel silenzio della casa (la badante a riposarsi chissà dove, forse davanti alla tv) sentivi il privilegio di questa convivenza, di questo accompagnamento alla fine della vita che riassume la vita. Si addormentava lì, tra i tuoi libri, e nel silenzio tiepido del pomeriggio riuscivi a elaborare anche la sua morte. […]
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