(Gazzetta di Parma, 14 febbraio 2005)
Vorrei, senza sapere nulla di economia, parlare di banche e di denaro, di investimenti e di borsa. Non è passato molto tempo da quell’ondata di euforia che, complice una delle più grandi bolle speculative della storia, ha fatto sì che si potessero vedere vignette come quella, pubblicata dalla Gazzetta di Parma, delle due massaie che si sporgono alla finestra per ritirare il bucato, e che invece di chiedersi come sia andata la partita allo stadio, si chiedevano come avesse chiuso Wall Street. E’ una buona descrizione della baldoria di soli quattro o cinque anni fa, quando tutti “giocavano” in borsa e si sentivano felici di comportarsi come i pesciolini che vengono a galla a mangiare le briciole di guadagni immensi e fuori portata. Prolungamento di quello spettacolo – nel Settecento si chiamava “largesse” – delle zuffe per raccattare pezzi di pan di spezie che i nobili gettavano alla folla durante i loro banchetti. E che negli odierni buffet trova la sua innocua caricatura.
Finché una serie di crac rovinosi, con colpevole chiamata di correo di una vasta serie di operatori e istituzioni, negli Usa e in Europa, ha decretato la fine di tutto questo. Cui si aggiunge il traumatico tracollo dei titoli legati all’Argentina, i cosiddetti “tango bond”. Ricordo ancora il sorriso del funzionario di una banca locale: “Si figuri se fallisce un Paese!”. L’Argentina, appunto. E’ accaduto, e in questi giorni le banche hanno convocato i clienti per decidere sulle proposte del governo argentino e l’esito dei loro risparmi: non solo gli investimenti dei cittadini non hanno ottenuto le percentuali di interesse assicurate alla partenza, ma la stessa nuda somma investita non verrà risarcita. Se non fra circa trentotto anni. Avete capito bene: “trentotto anni”. Credo che i risparmiatori, la cui età media è abbastanza matura, abbia provato un brivido e una vertigine: il valore d’uso non è il valore di scambio; il presente (unica ideologia della nostra epoca) non basta. Un’incrinatura si è prodotta nell’armatura di certezze che è tutt’uno con la nostra vita quotidiana: quel gioco della borsa, quell’investimento di denaro, quell’insieme di ”speculazioni” (notate come questa parola migri avanti e indietro tra pensiero filosofico e azzardo finanziario), si sbriciola di fronte alla prospettiva dell’inutilità, della vanità. Diciamolo con franchezza: è l’idea della morte biologica, della propria estinzione, a fare irruzione in un ambito che per antonomasia si vuole immune, risparmiato, esente. Le banche, che anche sul piano architettonico visualizziamo con spazi e volumi asettici e rassicuranti, saldi e imponenti, sono quanto di più lontano dal pensiero del corpo e della fine. Sono anzi, probabilmente, la quintessenza della rimozione contemporanea della morte. Si investe denaro anche e soprattutto per esorcizzare questo fantasma. Risparmiare per essere risparmiati. E’ il pudore della lingua a dire che la borsa è un gioco.
Forse è proprio per questo che non è facile parlare di denaro. La letteratura, che ha la propria vocazione nello smascherare i simulacri, e consolarci magari con altre tenere illusioni (fosse anche l’illusione dell’autenticità) c’è riuscita di rado. Ci ha provato il naturalismo o realismo di Emile Zola, nell’avventura letteraria a traino del positivismo e darwinismo ottocentesco: fare non solo, come già sognava Balzac, una “chimica dei sentimenti”, ma una “fisiologia” o anatomia” del sociale. Ma si trattava di parabole inquadrate in una visione del mondo che condizionava ideologicamente, lo si volesse o no, la storia narrata, come il naufragio della “Provvidenza” (valore religioso e insieme nome della barca che va in rovina) nei “Malavoglia” di Verga. E, mettendo da parte le descrizioni della povertà come mancanza di denaro, dalla “Vita agra” di Luciano Bianciardi alle storie di Bukowski o le saghe di Tom Wolfe, nel Novecento a me vengono in mente solo due autori, entrambi geniali e paradossalmente simili: Francis Scott Fitzgerald (pressocché tutti i suoi racconti e romanzi) e Antonio Delfini, soprattutto la sua incredibile e intensa Introduzione narrativa alla raccolta “Il ricordo della Basca”. Entrambi raccontano storie legate al denaro, dalla sovrabbondanza alla penuria. Storie vere e sofferte, imprevedibili, fuori da ogni ideologia. Che raccontano il denaro e tutte le sue connessioni come “mobile” e motore della vita individuale, come energia (o il contrario) della vita stessa, capace di influire sulla percezione del mondo.
Durante le vacanze di Natale, un amico poeta che abita nelle montagne della Val D’Aosta mi confidò che la sua famiglia era stata rovinata da un mio concittadino. Di fronte al mio stupore, aggiunse che tutti i loro risparmi erano stati affidati alla sorte della Parmalat, e la loro banca di fiducia negò fino all’ultimo istante l’evidenza della necessità di disinvestire. Di storie così ce ne sono una marea, e come si vede non “risparmiano” nemmeno un cantore leopardiano di valli, ruscelli e montagne. Ma cosa significa, in effetti, “risparmiare”? Che cosa è risparmio? L’etimo della parola, che deriva dai Germani (“sparniare”, verbo documentato in territorio gallo-romanzo a partire dal secolo VIII) è usata in Boccaccio col significato di “non spendere o non usare per tenere da parte”, in seguito come sinonimo di “riguardare”, “salvare”. Insomma una salvezza secolarizzata e laica, oltremodo terrena e immanente (come nel senso figurato “risparmiare il fiato”, parlare piano). Nella forma riflessiva, “risparmiarsi” è infatti “avere riguardo di sé”. Ma è anche storicamente vero e reale: nell’alto medioevo, per chi viveva del lavoro della terra, avere due cattivi raccolti consecutivi significava morire di fame. Risparmiare cibo, grano, era invece la salvezza. Nasce allora l’idea che ci si possa proteggere – non l’anima ma la vita biologica – tramite quella metafora della salvezza che è il risparmio. Saltando alcuni passaggi, vorrei venire al cuore della cosa: risparmiare, e tutto quello che è connesso alla cura di sé in senso traslato, come sopravvivenza, agio, potenza, ha a che fare con quello che gli psicanalisti chiamano abreazione e rimozione. Di che cosa? Della morte, naturalmente.
Si pensi alla “politica”. Dalle origini, dalle poleis greche, vuol dire la vita associata, lo stare insieme, il fare comunità. Comunità dei mortali, o dei “parlanti e mortali”, come la linga greca distingueva l’uomo dagli animali. Ma a un certo punto politica, invece che significare communitas, designa sempre più insistentemente il suo contrario, immunitas. Immunità, naturalmente, come pretesa di salvarsi, di essere immuni dal comune destino. Se si rilegge “La ginestra” di Leopardi, forse il più alto monumento in versi all’umana solidarietà dei parlanti e mortali, troviamo l’espressione ironica e dolente di questa fondamentale alienazione umana, di questa stoltezza. E’ proprio perché siamo fragili, individui, soggetti alla rovina, che gli uomini – dice Leopardi – dovrebbero associarsi e aiutarsi, fare comunità. Ma “gli uomini preferiscono le tenebre alla luce”, dice l’esergo alla poesia citando San Giovanni. Eppure è una consapevolezza alla portata di tutti: a cosa serve la cosiddetta politica se non a preservare l’idea di comunità, e se vogliamo anche le illusioni, che sono belle e aiutano a vivere, a patto di non chiuderle tutte in un’unica, totalitaria illusione, quella dell’immunità? Che poi l’immunita sia divenuta oggi addirittura uno status symbol, la dice lunga sul nostro accanimento. C’entra tutto questo col risparmio, il denaro, le banche e la borsa?
A me sembra che abbiano lo stesso sottinteso, la stessa umana aspirazione. Passare da un investimento affettivo al suo traslato. Metaforizzare per paura della nudità della vita. Ma risparmiare, risparmiarsi, è certamente giusto, e le nuove paure degli Italiani, a leggere i sondaggi, incontrano quelle più antiche. Ancora una volta, però, è solo collettivamente che si può trovare salvezza. Se i consumi oggi sono dominuiti, occorre ripensarli. C’è bisogno di infondere fiducia e coraggio nei consumatori, e qualche idea pure ce l’avrei (per riappacificare la cultura dell’“ozio”, ovvero della vita nuda contemplativa, la vita dell’anima, con quel “neg-ozio” che si volle storicamente negazione del primo). Quanto ai risparmi e alle banche, ho un suggerimento per il mio istituto di credito: perché non fare un bel gesto, efficacissimo sul piano promozionale, capace da solo di riottenere la fiducia dei risparmiatori minata dagli scandali; ovvero dire ai possessori dei “tango bond” argentini: “non temete, dateli pure a noi, ve li risarciamo a prezzo intero, poiché le banche non sono soggetti biologici, e tempo e durata non influiscono per noi allo stesso modo”. Per una volta, il valore di scambio e il valore d’uso, la vita e il risparmio, potrebbero di nuovo incontrarsi.
Beppe Sebaste