
Lo so, l’ho scritto tante volte, ma quelli che seguono sono alcuni appunti quasi ordinati di quanto ho detto introducendo un incontro alla Casa delle Letterature, a cura di Maria Ida Gaeta, lo scorso 17 maggio, con la partecipazione di scrittori e soprattutto “critici” letterari di cui ricordo Gabriele Padullà, Elvira Seminara, Wlodek Goldkorn, Filippo La Porta, Gilda Policastro, Sabina Minardi, Andrea Caterini etc. etc.
L’amico Paolo Di Paolo, dopo aver letto queste riflessioni, mi ha detto che sarebbe stato bello leggerle su un giornale, soprattutto a pochi giorni dalla morte di Gerard Genette (che cito, in effetti). Capisco che cosa voglia dire e lo ringrazio. Ma se questi appunti fossero potuti uscire su un giornale, a parte il paradosso in sé, il rischio è che non avrei avuto la forza o il desiderio di scriverle. Un po’ perché sono cambiato io, che non ci scrivo quasi più e li leggo adesso dal di fuori come quando ero molto giovane, un po’ come si guarda un film al cinema, o dei trailer bevendo il caffè. Ma soprattuto perché sono cambiati i giornali, e viceversa questo blog non è un organo di comunicazione, ma di resistenza, magari anche solo in forma di balbettamento. Come diceva Gilles Deleuze, “non ci manca certo la comunicazione, anzi ne abbiamo troppa: ci manca la creazione. Ci manca la resistenza al presente“.
Intervento alla Casa delle Letteratura
Vorrei raccontare alcune storielle, o spunti di riflessione, con altrettante citazioni esemplari, a proposito dell’opposizione – poiché tale è ai miei occhi – tra la letteratura e la comunicazione.
La prima è una spot della Telecom di oltre una decina d’anni fa, e di cui ho parlato anche nel mio Fallire. Storia con fantasmi. In un bianco e nero contrastato che cattura l’anima si vede Gandhi, il profeta ribelle della non violenza, il liberatore dell’India, ripetere e fa riverberare le sue parole, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione, in ogni luogo del mondo, dai megaschermi di Times Square ai tablet dei beduini nel deserto, in modo che tutti, ma proprio tutti, possano ascoltarlo. “Se avesse potuto parlare così” – chiede retoricamente una voce fuori campo – con una tale profusione di mezzi e in mondovisione, cosa sarebbe stato delle sue parole, del suo messaggio? La risposta è: nulla. Il suo messaggio sarebbe scomparso quasi subito nella grande discarica delle parole e dei contenuti che si affidano alla comunicazione, triturato dalla sua stessa saturazione, ormai irrilevante a forza di essere presente. Non se ne avrebbe più nessuna memoria.
Il filosofo Mario Perniola, da poco scomparso, aveva spiegato questo e molto altro in un pamphlet (in realtà un densissimo saggio) dal titolo Contro la comunicazione, seguito da un altro, Miracoli e traumi della comunicazione. In breve, la comunicazione è definita da Perniola l’opposto della conoscenza, e in particolare dell’estetica. La comunicazione è nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti. Naturalmente è avversa sia alla memoria che all’immaginazione. La società dominata dalla comunicazione sostituisce l’educazione e l’istruzione con l’edutainment, la politica e l’informazione con l’infotainment e l’arte e la cultura con l’entertainment, cioè lo spettacolo. Io aggiungerei intanto che una grande differenza tra la comunicazione e la letteratura è che il successo dal punto di vista della prima equivale al fallimento nell’orizzonte della seconda, e viceversa: la riuscita della letteratura è congruente al fallimento della comunicazione.
Perniola criticava la presunta democrazia (o democratura) culturale che è al cuore dell’ideologia della comunicazione, oltre che il suo alibi. Tutto è uguale a tutto, tutto è contemporaneo a tutto. Alla futilizzazione della politica e della sessualità si aggiunge naturalmente quella della letteratura, di cui pure negli anni Sessanta erano perfettamente consapevoli alcuni autori magistrali (si pensi a Beckett, che mostra sia l’impossibilità del teatro che quella del romanzo). Riguardo alla perdita dell’autorevolezza dell’autore, scrive Perniola, il famoso detto di Lautréamont – La poésie doit être faite par tous, non par un – arriva alla sua realizzazione tramite il ’68 e i suoi slogan. Oggi, nel pieno dell’età della comunicazione, tutti scrivono ma nessuno legge, tutti parlano ma nessuno ascolta.
Nel suo indefinibile romanzesco documentario, Qualcosa di scritto, Emanuele Trevi notava la progressiva riduzione della letteratura a narrativa. Io aggiungerei la riduzione della narrativa al romanzo giallo o criminale, o comunque di trama, e di quest’ultimo al modello della sceneggiatura televisiva.
Questo mi ha ricordato un saggio del narratologo da poco scomparso Gerard Genette, Fiction et diction, dove si distinguevano appunto nell’ambito della letteratura due pratiche quasi opposte, “finzione” e “dizione”. La prima, liberata e esonerata dai problemi legati alla natura e alla verità del linguaggio, è considerata letteratura per i suoi “topici” e il suo contenuto, cui si conferisce d’emblée lo statuto di immaginario. La dizione invece è letteratura non per il suo contenuto ma per le sue caratteristiche formali e linguistiche, non per l’aspetto “tematico” ma “rematico”. Quello che è interessante osservare è che un’opera di finzione è quasi sempre accolta come letteraria indipendentemente da un giudizio di valore, invece una dizione può essere letteraria in due modi: se è poesia, o comunque ha forma poetica (una composizione in versi essendo sempre opera letteraria), oppure se è una prosa non fittiva, non finzionale, ciò che viene percepito come letterario da un atteggiamento individuale del lettore. La cosa buffa è che, anche se non tutta la letteratura è finzione, e non tutta la finzione è letteratura, se si escludono dal campo dell’arte le opere “malriuscite” – dice educatamente Genette – “il rischio è che non ci resti più granché, perché la maggior parte delle opere sono malriuscite – il che non impedisce loro affatto di essere delle opere”.
Che uso fare di questa imbarazzante verità, che c’entra moltissimo con l’impero della comunicazione e il dissolversi della letteratura? Di fatto, le opere più interessanti, sorprendenti o su cui vale la pena di discutere, sono quasi sempre anomale, prose non di finzione nel senso di Genette e linguisticamente complesse o imprevedibili. Sono realtà residuali, ma quello che resta, si sa, è sempre quello che resiste.
In una conferenza del 1987, Che cos’è l’atto di creazione?, Gilles Deleuze pose con chiarezza, cioè in modo partigiano, la questione: “Che rapporto c’è tra l’opera d’arte e la comunicazione? Nessuno. L’opera d’arte non è uno strumento di comunicazione. Non ha niente a che fare con la comunicazione. Non contiene in senso stretto la benché minima informazione. In compenso, c’è una fondamentale affinità tra l’opera d’arte e l’atto di resistenza. Ha qualcosa a che fare con l’informazione e con la comunicazione solo in quanto atto di resistenza”.
Io non so spiegare che cosa significhino esattamente queste parole, ma sono abbastanza convinto che nei film di Sorrentino sugli anni della futilizzazione del mondo e della bellezza e dell’irrisione della cultura, che narrano cioè il ventennale regime spettacolar-pubblicitario i cui effetti non sono ancora cessati, ma come quelli del napalm dureranno a lungo – e già si vedono sbocciare i loro primi frutti, come gli scolari e i loro genitori che picchiano gli insegnanti – ; sono convinto, dicevo, che negli ultimi film di Sorrentino non ci sia un solo filo di resistenza. Anzi, forse c’è una complicità nell’estetizzazione, che è un altro volto della comunicazione e non c’entra nulla, spiega Perniola, con l’estetica.
Recensendo la traduzione degli ultimi scritti “civili” dello scrittore Max Frisch – sulle leggi per il diritto d’asilo, la fuga e l’espatrio dei più giovani e creativi per esprimersi, il corso politico del mondo, che definiva già negli anni ‘80 “rivolta dei ricchi contro i poveri”, sul fallimento dell’Illuminismo e sulla riduzione della democrazia a folklore – mi colpiva che quel diario pubblico di Frisch avesse la stessa età dei giovani scrittori e critici ben inseriti nel sistema culturale che da noi protestavano per ottenere maggior potere e visibilità, senza dire perché, per quale finalità; e lo facevano e dicevano come se scrivere fosse una professione qualsiasi, soggetta ad aumenti, promozioni, gerarchie, come se la letteratura fosse appunto una branca della comunicazione, e non invece una pratica irriducibilmente anarchica e votata piuttosto alla dépense, a un perdersi e non a un confermarsi o accumulare qualcosa; uno spogliarsi, e non un addobbarsi.
Ma questa rivendicazione anagrafica è forse allo stesso tempo più semplice e più complessa. Max Frisch, per cui il compito dello scrittore è essere opachi, irriducibili alla banalizzazione del linguaggio come “comunicazione”, ha scritto: “Esiste oggi uno scrittore che creda che le sue opere verranno lette, che so, tra cent’anni?” Scrivere, continuava Frisch, “è diventato un dialogo con i propri contemporanei. Niente di più. Il compito dello scrittore – comunicare ai propri nipoti qualcosa del proprio tempo – assomiglia sempre più a una mera illusione. Solo quarant’anni fa Bertolt Brecht si rivolgeva ancora alle generazioni postume”. (E ricordo che Levinas, in uno scritto in cui era questione dell’hitlerismo dominante, osservava che scrivere per le generazioni future, per il futuro di un mondo che si ponesse oltre l’hitlerismo – “un mondo senza di me”, senza di sé – sarebbe stato, era, il modo più nobile di scrivere).
Se il compito dello scrittore è invece dialogare con i propri contemporanei, anzi chiacchierarci, allora la letteratura può tranquillamente fare a meno di esistere per come l’abbiamo forse conosciuta, e accontentarsi di essere un elemento, non il più importante, della comunicazione che avviene senza interruzioni nei social network esistenti, i quali possono agevolmente assorbire il sistema editoriale, la società letteraria e civile, i dibattiti, gli studi e gli apparati critici. Reciprocamente, i fruitori dei social sarebbero oggi ciò che risponde al nome di “scrittori”.
Giorgio Agamben, ne Il fuoco e il racconto, ha scritto: “Che cos’è la letteratura se non un’operazione nel linguaggio che ne disattiva e rende inoperose le funzioni comunicative e informative, per aprirle a un nuovo, possibile uso? O, per dirla con Spinoza, il punto in cui la lingua, che ha disattivato le sue funzioni utilitarie, riposa in se stessa, contempla la sua potenza di dire”. Voglio ricordare che il titolo del saggio di Agamben viene da un celebre racconto della tradizione ebraica chassidica che ho anch’io più volte narrato (lo si legge anche in Oggetti smarriti e altre apparizioni):
“C’era una volta una generazione di chassidìm che, quando dovevano prendere una decisione importante, andavano in un luogo nei boschi, accendevano il fuoco e dicevano delle preghiere, assorti nella meditazione. Un chassidìm della generazione successiva, di fronte alle stesse incombenze, andava nello stesso posto nel bosco e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, ma possiamo dire le preghiere”, e questo era sufficiente. Ancora una generazione dopo, un altro chassidìm che doveva assolvere lo stesso compito andava nel posto e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete preghiere, ma conosciamo il luogo dove tutto questo accadeva”, e infatti bastava. Finché, in un’altra successiva generazione, dovendo affrontare lo stesso compito, il chassidìm restava seduto nel proprio castello e diceva: “Non possiamo più fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il posto nel bosco, ma di tutto questo possiamo raccontare la storia”.