
La serata di ieri in una libreria di Roma – anzi, una frazione di Roma capitale verso il mare di Ostia, porzione dell’agro romano ora tappezzata di ville e villette, il che rende quasi una missione gestire una libreria – e l’attenzione di cui è ancora oggetto il mio libro Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne, e il tema “panchine” in generale – oggetto poetico e sociale, luogo di una rivendicazione sempre attuale di spazio e tempo liberati, di resistenza alla trasformazione dei cittadini in consumatori e clienti, etc. -; insomma, tutta l’anima che ancora resiste e persiste delle Panchine e della nostra volontà di sedercisi e di difenderle, ecco, tutto questo mi induce a offrire nel blog non solo un paio di immagini tra le tantissime che nel tempo, dopo il libro, mi si sono presentate alla vista o mi sono state offerte. Ma anche testi scritti, come il bellissimo articolo, rimasto inedito perché fuori tempo massimo, che a Panchine ha dedicato poco più di un anno fa, cioè appena letto il libro, l’anglista e scrittrice Viola Papetti (amica stretta di Giorgio Manganelli), che io ringrazio ancora una volta. Eccolo.
Viola Papetti, articolo su Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne (Laterza contromano) di Beppe Sebaste
Una panchina verde, a onda, una panchina classica, avrebbe dunque il potere di restituirci l’anima che la fretta moderna ci ha trafugato? Il potere di indurci alla contemplazione? Al nobile otium degli Stoici? O ad un’ascesi quasi da eremita di città (se una contraddizione del genere può essere ammessa). Quando ci sediamo, anche se distratti, su una panchina come si deve, lei ci parla di corpi letterari, di raffinate epifanie, e al contempo di piccole cose ovvie e affettuose; ci regala il lusso del tempo da perdere, ci fa capire certi laconici personaggi di Beckett, che altrimenti sarebbero dei perdigiorno e scansafatiche. Ma non dal punto di vista del critico che siede su una panchina. “Se tutta la scrittura di Beckett ha la povertà e l’essenzialità di una panchina, il suo teatro ne è come una grande estensione, metaforica”. Seduti su una panchina anche noi scivoliamo in una “vita secondaria”, muti e assorti, in vista di sublimi paesaggi o nobili monumenti, o di macerie urbane periferiche, sporche e cattive. Il contemplatore che emerge dalla panchina, tutto assolve, tutto gradisce e benedice.
Questo e molto altro suggeriscono le Panchine di Beppe Sebaste, che aggiunge nel sottotitolo Come uscire dal mondo senza uscirne (Laterza “Contromano”, pp.176, 2008, 2009, e 2011, tante volte ripubblicato perché più che mai attuale). “La letteratura è piena di panchine, perché parla della vita della gente – e la gente, sopra ogni altra cosa, aspetta, … Poi parla di panchine perché quelli che scrivono, oltre ad aspettare e guardare più degli altri, hanno spesso una vita di frontiera, senza appartenenza. La vita di scrittori e artisti è spesso oziosa per lo sguardo comune, cioè straordinariamente assorbita dal loro lavoro invisibile” – ad esempio, Gregory Corso che aveva per panchina tutta Roma (Dove my casa?, 1978). Ma il numero degli scrittori che hanno meditato, scritto o semplicemente riposato su una panchina è straordinario e per intendere la fenomenologia panchinesca (o panchinale?) occorre fare un po’ d’ordine.
Beppe le ha trovate in tutto il mondo si può dire, e le ha sperimentate personalmente, ossia ci si seduto e ha permesso al suo corpo di pensare panchinesco. Quindi ha messo a segno alcuni punti chiave: 1) La p. e il “trasognamento” 3) La p. e la storiabilità. 4) Umori e influenze di una certa panchina di piazza Cairoli 5) La panchina e lo Zen…, e si potrebbe continuare per molto. Anche a porla come termine oppositivo, provocatorio, la panchina, una volta uscita dalla categoria del quotidiano e della casualità, è diventata presenza connotativa di esperienze e emozioni affini che in questo tempo assiale fermentano in molte parti del mondo – e forse Benjamin l’ha volutamente omessa ma non dimenticata nelle sue meditazioni. Come per le città da lui descritte, in queste pagine Beppe Sebaste gioca con la tenerezza per l’effimero, il creaturale, la grazia e la mancanza di finalità – una coraggiosa anche se temporanea sospensione del tempo omicida. Gli sono mentori Luigi Ghirri e Gianni Celati, da cui cita un proposito che evidentemente condivide: “Ci sono mondi di racconto in ogni punto dello spazio, apparenze che cambiano a ogni apertura d’occhi, disorientamenti infiniti che richiedono sempre nuovi racconti: richiedono soprattutto un pensare-immaginare che non si paralizzi nel disprezzo di ciò che sta attorno”. Ma c’è un’esperienza illuminante, decisiva, che Beppe visse a metà degli Settanta, su una panchina. Trovò alcune pagine strappate dalla Sutra del Cuore e dalla Sutra del Diamante che recide l’illusione: “… O Sariputra, qui la forma è vuoto, e il/vuoto è forma; la forma non è altro che vuoto,/e il vuoto non è altro che forma…”
Leggendo del potere di quella panchina di suscitare il satori, all’improvviso ricordo qualcosa di simile che mi accadde una mattina a Monaco, mentre sedevo su una panchina di pietra, leggendo Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Un Giorgio Manganelli furioso arrivò all’improvviso e fece a pezzi il capolavoro di Pirsig – sul quale poi feci un seminario che fu felicemente liberatorio per me e i miei studenti.
Le panchine possono essere luoghi in cui accade il mistero, la sincronia, la confessione – vedi la panchina del giardino di Tavistock Square, a Londra, nel film di Woody Allen Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, dove i due anziani innamorati scoprono che quanto promesso dalle sedute spiritiche è diventato reale. Le panchine, “realtà interstiziali”, “pieghe del mondo”, possono anche essere umorali e soggettive: depresse, ben disposte, popolari, solitarie, aristocratiche e appartate, e grandi menagramo come quelle di piazza Cairoli a Roma che conosco forse quanto Beppe, e gli do ragione: a sedersi lì imitando l’accasciato Cairoli, anche con un libro in mano comprato nella vicina bancarella, si finisce per diventare da accasciati a fantasmi e, se va bene, a scrittori. A lui è andata benissimo, e queste Panchine ne sono la prova più robusta.