Quando ricevetti per mail l’invito di Andrea Cortellessa alla presentazione, giovedì 18 dicembre 2014 alla GNAM di Roma, del volume L’opera poetica di Emilio Villa, pubblicato con infinito merito da L’orma editore; e soprattutto alla maratona di letture a più voci dedicata a Emilio Villa che si sarebbe tenuta la sera di quello stesso giovedì all’ESC in Via dei Volsci, io stavo pressappoco a Kovalam Beach, sud dell’India, dopo un lungo, faticoso e commovente soggiorno a Kolkata (Calcutta).
Proposi a Cortellessa di mandare la registrazione di una poesia di Villa. Era ovvio per me scegliere quella, che io sappia inedita, esposta da Claudio Parmiggiani in un foglio autografo di Villa, nella splendida mostra dedicata a Villa nel 2008 nella chiesa di San Giorgio a Reggio Emilia (mai visto l’arte contemporanea così bene allestita, tra le navate e gli altari). Poesia che da anni appare qui a fianco, a destra del blog, come un nume tutelare. (Vorrei naturalmente mantenerla nell’imminente nuovo assetto del sito/blog, ora in ristrutturazione).
Poi però mi dimenticai. Il primo pomeriggio del 18, ora italiana, non l’avevo ancora mandata, per me era il tramonto e avevo degli impegni. Ero appena tornato da un viaggio nella punta estrema dell’india, Kanyakumari. Dalla mia finestra con balcone vedevo una jungla in cui dominavano gli alberi di cocco e i suoni di uccelli a me ignoti, e versi di scimmie. In piedi, col telefonino, prima di uscire di nuovo, ho detto questi versi e li ho “spediti”. Solo più tardi li ho incollati a delle fotografie del mio paesaggio abituale, e quello di un laghetto di fiori di loto nei pressi. Ecco qui. A Cortellessa la mia voce non arrivò in tempo, ma chi l’ha ascoltata mi ha chiesto: perché non la metti su Fb, insomma on line? Ho scoperto così che i materiali sonori sono piuttosto trascurati e rimossi nei social network, dove è il visivo a imperare. Ecco perché ho dovuto incollare la voce a un “video”, poverissimo, di due/tre immagini. Da sola, la mia voce, non avrei potuto “caricarla”.
Sì, ma chi era Emilio Villa?
Emilio Villa è stato il “clandestino” del Novecento italiano (come lo definisce Aldo Tagliaferri, suo interprete e sodale): irriducibile e conflittuale non solo a ogni accademia e ogni canone, ma estraneo a ogni identità e ogni appartenenza, fu capace di concatenare la più antica classicità alle avanguardie estreme: tradusse l’Antico Testamento e l’Odissea e fu tra gli iniziatori dela poesia sperimentale italiana, lanciò tra gli altri Burri e Rotella, e fu battezzato “Villadrome” da Marcel Duchamp. Morì solo e poverissimo, naturalmente.
A Emilio Villa avevo già pensato in quei giorni in India per mio conto. Avvenne per una strana (ma non poi così strana) associazione di idee, visto che lo pensai rileggendo ilMahabharata, il grande poema epico indiano la cui trama ha inizio 5000 anni fa, nella bellissima traduzione italiana di Maggi Lidchi-Grassi (allieva, e già questo commuove, di Sri Aurobindo e Mère a Pondicherry). In particolare mi venne in mente Villa già nella prima pagina dell’antico poema.
MI sarebbe piaciuto avere un amico con cui parlarne all’ombra del popolo di alberi di cocco tra cui albergavano diverse specie di invisibili e chiassosi uccelli, tra risaie, banani e palmeti, a duecento metri dal mare e a duecento chilometri dall’equatore – parlare di come il Mahabharata anticipi e prefiguri tutta la letteratura successiva (dall’Iliade a Harry Potter passando per I tre moschettieri), e della scoperta che quei versi di Emilio Villa, poeta e gran traduttore di Omero, che tenevo come esergo nel blog (“prima o poi, […] presto o tardi tutte le parole / sono destinate a sparire […], spariscono”), assomigliano in modo intimo e profondo al preambolo di quell’antico meraviglioso testo: quando il poeta Vyâsa racconta a Brâhma del proprio poema che tutto contiene – passato e futuro, realtà e fantasia (perfino il Divino vi dimora); finché, dice, anche questo Yuga con tutto l’universo – questo – sparirà, e una nuova Yuga rinnoverà la vita dopo la vecchia stagione (“così si perpetua il volgere del mondo”).
Quindi il poeta detta al Dio Ganesha, Colui a cui nessun ostacolo resiste (che qui sta solo nel ruolo di scrivano) il poema che conservava nella mente, e che pure sparirà (il poema, si badi, che contiene il mondo: quindi il poema che lo “crea”…).OM, OM, OM, OM, OM, ripetono entrambi a occhi chiusi prima dell’opera di dettatura per invocare il vuoto e il grande silenzio… – e a me vennero le lacrime agli occhi appena ne iniziai la lettura…
(Sì, ma “a chi dirlo?”, risuonò nella mia testa un altro verso del grande Emilio Villa…).