Mia madre e l’11 settembre 2011. Un brano da “Fallire. Storia con fantasmi”

crollo 2

da Fallire. Storia con fantasmi, pp. 70-74:

[…]

Sei in compagnia di tua madre (e della sua badante dell’epoca, triste e muta), il giorno in cui gli aerei si conficcarono uno dopo l’altro in mondovisione dentro le Twin Towers, nel cielo grigiazzurro di New York. Era un martedì, primo pomeriggio, lo vieni a sapere per mail, poi lo vedi alla tv, nella stanza che era il regno diurno di tua madre e della sua badante. Incidente? No, guerra. Le e-mail si susseguirono, difficile restare spettatori soli e muti.

Di fronte alla ripetizione ossessiva delle immagini televisive, tua madre disse che voleva uscire di casa: non faceva differenza tra la “realtà” e la “televisione”, se pioveva in un film voleva dire che pioveva fuori, e giustamente aveva paura che la casa crollasse. Per ora erano le borse a crollare dappertutto come i grattacieli di Manhattan, e dopo le prime considerazioni condivise («gli americani vedono in casa propria e dal vero ciò che vedevano in tv quando lo facevano accadere in altre parti del mondo») sei testimone di un panico cieco, di una ferita e una piega del mondo che riguardava tutti. Avevi paura di una risposta altrettanto cieca e sbagliata, della Bomba, quella vera, che non lascia vincitori né vinti. Una paura che ti ricordava l’inverno nucleare di Reagan e Andropov. Forse il capitalismo planetario aveva già compiuto la svolta che lo fece diventare punk, all’insegna del no future, prima ancora di Putin, di George W. Bush e dei califfi dell’Islam. Ma chi era il «nemico»?

Intanto quelle icone reali e abitate di cui tutti avevano ricordi diretti o indiretti, quelle Torri continuavano a sbriciolarsi in mondovisione come nei fotogrammi seriali di Andy Warhol, avvolgendo nel fumo la città più simbolica del mondo. «Collasso», lo definì la CNN.

Ti scrisse Stefania da l’Unità: «Le prime immagini che ho visto in televisione mi hanno fatto pensare a Mars Attacks o ai film con Bruce Willis, come se fosse tutto finto». Nella tragicità di quello che stava succedendo si avvertiva un senso di irrealtà, come se l’America si fosse attaccata da sola, in una sorta di cortocircuito autoimmunitario. Come se stesse implodendo l’intero Occidente, il mondo globalizzato. Avevano chiuso le borse, stavano evacuando tutto, l’America era in stato di guerra contro ignoti.

Avevi paura anche tu, e il fatto che si pensasse a dei film (americani) dava bene l’idea del corto circuito. «Se mi mettessi a pensare seriamente – le dici – mi verrebbe un elzeviro lussuoso e impubblicabile, parole che danzano sull’orlo dell’abisso». Ma non è il destino, sempre, di tutte le parole?

«Curioso, anche qui in redazione – rispose – si è parlato del danzare sull’abisso».

Che ne era delle parole, di quello che ci preoccupava fino a poco prima? Ha senso, in generale, quello che si dice? Tutto sembrava oscurarsi, come il cielo sopra Manhattan. La solitudine dei testimoni, l’impotenza delle parole di fronte agli eventi: era questa rivelazione a fare del linguaggio una danza sul vuoto. Forse tutta la vita è così, e solo quando qualcuno cade veramente dal ciglio del burrone o dall’ultimo piano del grattacielo ci stupiamo e spaventiamo. Come continuare a dire e a scrivere senza sembrare dei dottor Stranamore?

Un’altra amica, una giovane giornalista finanziaria, si accorse che i suoi abituali interlocutori d’oltreoceano erano tutti morti, come quelli della banca d’affari Morgan Stanley, alloggiati nelle Twin Towers. Stefania ti mandò un ultimo messaggio: «Dicono che i morti sono migliaia».

Di fronte all’apocalisse in tv, tua madre che non voleva quasi mai andare fuori insisteva adesso per uscire, per paura che tutto crollasse. Solo il primo piano di un uomo barbuto la rasserenava: ti chiese chi fosse quel “bell’uomo” dallo sguardo dolce. Era Osama Bin Laden, che la tv mostrava tra una ripetizione e l’altra del crollo delle Torri.

Finalmente la spegni. Fu la rivincita del reale fattuale contro il suo clone o simulacro. Esci a camminare nel parco con tua madre e la badante. Il verde degli alberi era bello e fresco, tua madre si abituò all’idea che la casa non crollasse, anche perché presto si era dimenticata di tutto.

 

C’è una bella differenza tra i figli che abitano con i genitori e quelli, come te, che avevano un genitore che abita da loro. Gli effetti sono opposti. La tua vita sociale ne era totalmente condizionata, e per di più in maniera ignota alla maggior parte della gente, visto che per forza di cose frequentavi pochissime persone. Ma c’erano dei momenti, come quando al pomeriggio tua madre si addormentava sul divano del tuo studio, e il volto le si distendeva e rasserenava, che nel silenzio della casa (la badante a riposarsi chissà dove, forse davanti alla tv) sentivi il privilegio di questa convivenza, di questo accompagnamento alla fine della vita che riassume la vita. Si addormentava lì, tra i tuoi libri, e nel silenzio tiepido del pomeriggio riuscivi a elaborare anche la sua morte.

A dire tutta la verità, adesso ti mancava perfino quell’ansia permanente e sotto pelle che caratterizzò per anni le tue giornate. Ti mancano le emergenze: supplire alla badante che era scesa per comprare il latte; portare la carrozzina dal meccanico delle biciclette, che di solito era chiuso, gonfiare le gomme, registrare i freni, aggiustare i braccioli; le corse in farmacia a comprare le medicine, e prima ancora dal medico per avere la prescrizione, ciò che spesso accadeva di domenica, oppure di sera. Ti mancano le telefonate surreali dell’“ufficio pannoloni” – una specie di call center situato chissà dove da cui chiamavano nei momenti più impensati – e i cui trasportatori scaricavano nei momenti e nei giorni più inattesi una piramide di scatole di traversine e pannoloni della misura sempre sbagliata, lasciandole nella hall del palazzo da cui le smistavi alla bell’e meglio sotto gli occhi dei vicini di casa. Ti manca l’apprensione continua, l’allarme invisibile che potevi avvertire una sera a cena con amici quando la badante – che avevi chiamato per puro scrupolo – non rispondeva al telefono; un’ansia come un sibilo, una zona morta, come un enfisema, che passava direttamente al cuore e al cervello. Ti manca il fantasma del dovere, quell’imperativo che nemmeno un figlio piccolo sa procurare – e un figlio, in genere, lo si condivide. Ma, a dire tutta la verità, queste sono notazioni solo superficiali e di colore, e dovresti parlare invece di una solitudine che non avevi mai immaginato.

Dire il dramma sordo delle badanti tra regolarizzazioni e clandestinità, tra speranze e abbandoni, uno scorcio di umanità così banalmente complicato da assomigliare alla versione da incubo di un serial televisivo, e che oscillava tra la comunità utopica e la guerra tra poveri. Dire che ogni giorno, come se il tempo si fermasse in seguito a una condanna divina o mitologica, per tua madre ricominciava daccapo e sempre uguale, salvo piccolissime variazioni: la colazione stanca e la malinconia precoce, la testa sulla mano destra (l’unica che poteva muovere) appoggiata al tavolo, la passeggiata pomeridiana a pestare le foglie morte del parco con le ruote della carrozzina, quindi lo sforzo di far scendere la carrozzina per le scale, tu e la badante. Poi di farla risalire. Dire l’impossibilità di non esserci, non essere lì, presente. Dire il brusio della televisione sempre accesa nel canale peggiore, quello delle soubrette e delle eterne risate (se le badanti votassero avrebbero tutte scelto Berlusconi). Come è possibile avere nostalgia di una vita strozzata?

È semplice: tua madre c’era, eri al servizio di una mamma bambina, da cui ricevevi la gratificazione di vederla viva e presente, la pelle delle guance ancora liscia e calda. Gli occhi. La voce. Una conquista quotidiana per la quale avevi rinunciato al tuo nomadismo, alle seduzioni, alla tua vita e al lavoro. Non più insegnamento al Collège International de Philosophie, ad esempio. E quando appunto tua madre si sedeva, mezza sdraiata, sulla poltrona o sul divano tra i tuoi libri – circostanza che dava qualche mezz’ora di libertà alla badante di turno – quando cadeva nel sonno, la guardavi come se fosse morta. Ecco, ti dicevi, ci siamo, devo farmi forza. E restavi a guardarla pensando alla fine.

Adesso ti mancava il risveglio da quel senso di lutto – il risveglio dalla morte quotidiana di tua madre, la dialettica di una fine ogni giorno affermata e superata, mai davvero oltrepassata, quotidianamente presente – adesso che tua madre era definitivamente assente.

   […]

http://www.amazon.it/FALLIRE-Storia-fantasmi-Beppe-Sebaste-ebook/dp/B00ZFQER26/ref=sr_1_1?s=books&ie=UTF8&qid=1438849679&sr=1-1&keywords=sebaste

FALLIRE BeppeSebaste COPERTINA Kapoor 15x21cm (DEF)http://www.amazon.it/FALLIRE-Storia-fantasmi-Beppe-Sebaste-ebook/dp/B00ZFQER26/ref=sr_1_1?s=books&ie=UTF8&qid=1438849679&sr=1-1&keywords=sebaste