“Non vogliamo scrivere sui muri”

 

calvino paris

Per farla breve, quello che segue è uno dei miei primi articoli scritti su un giornale, in una rubrica sulla Gazzetta di Parma del 1993-1994, molto libera, che intitolai “Luoghi comuni”. Parla, oltre che essergli intimamente dedicato, di Italo Calvino. L’ho ritrovato in un vecchio file, e spiegherò magari dopo perché abbia deciso di ripubblicarlo.

“Non vogliamo scrivere sui muri”

Poiché va di moda rivendicare un passato avventuroso e sovversivo, forse per via di un presente povero di emozioni e di avventure (ma perché hanno smesso? dico io), non mi farò scrupoli nel riferire che una volta, intorno al 1977, sono stato denunciato, e comunque fermato, per avere imbrattato un muro. Sul muro di un cinema della città, in pieno giorno, scrissi infatti questa frase: NON VOGLIAMO SCRIVERE SUI MURI. Accadde che il direttore del cinema mi vide e chiamò la polizia, mentre nel frattempo ero entrato in un’assemblea di studenti, e quando uscii fui fermato dalle forze dell’ordine. Attorno a me si creò un capannello protettivo […], e la discussione che ne nacque, nonostante la mia profonda paura verso ogni genere di autorità (e forse proprio per questo), fu vagamente grottesca: “Sono d’accordo con voi”, dissi più o meno, “vi basta andare a leggere quello che ho scritto sul muro per capirlo”. Risero quasi tutti. […] Ero solo un ragazzino, e quella frase l’avevo pescata da un repertorio di slogan del ’68 francese, affascinato dagli urti logico-grammaticali e dagli effetti poetici che suscitano. Rientra di diritto nel catalogo delle enunciazioni e delle pratiche letterarie e artistiche delle avanguardie storiche, anche se quel programma di attivo fallimento – dirsi contro la scrittura e dirlo scrivendo – risale perlomeno a Rousseau (per non dire a Platone). In seguito quella stessa frase divenne il titolo di un videofilm realizzato con un artista di Parma sul tema del paesaggio, utilizzando le “cartoline” che illustrano  questi miei “luoghi comuni”.

Cosa c’entra quell’episodio con un articolo che si vuole espressamente dedicato a Italo Calvino? Mi è venuto in mente proprio qualche giorno fa a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, mentre facevo il “testimonial” a una serata su Calvino, nell’ambito di una rassegna chiamata: “Un’eredità difficile”. Erano previsti numerosi filmati d’autore dedicati ad altrettante opere di Calvino, mentre di fianco a me illustri critici (Almansi, Barenghi, Berardinelli, etc.), discettavano sul grande scrittore italiano – più spesso, devo dire, leggendo a voce alta i loro commenti critici. Io, che critico non sono, ero convocato in veste di scrittore a rendere “una testimonianza”. Perché io? Mi è venuto in mente il bellissimo (e drammatico) verso del poeta Paul Celan: “Nessuno/testimonia per i/testimoni”.

La mia non è una condizione facile, ho subito dichiarato. Il testimone è sempre solo, singolare. È sempre presente rispetto a un passato. Non solo perché il testimone non è mai presente a ciò che dice di essere stato testimone, e che il suo modo verbale è quindi sempre al passato, ma perché il testimone (testis, terstis, tristis) è il superstite, il terzo di due […], colui che sta sopra, al di sopra del contendere, dei contendenti (in quella fattispecie, dei critici). Per questo il testimone è sempre in qualche modo un erede, un legatario. Egli ha solo se stesso, cioè la propria presenza, per attestare, cioè promettere, di dire il vero: porta se stesso a testimone che sta dicendo la verità, che quanto sta dicendo è pertinente, che pretende di sapere ciò che dice, e di che cosa si parla; e che è vero che ha visto quello che ha visto, che ha letto quello che ha letto, per esempio Calvino, etc. Ma appunto: chi testimonia per il testimone?

Essendo dunque “testimoniare” una di quelle parole “performative”, come dicono i linguisti, in cui dire cioè è uguale a fare (come “promettere”, “ordinare”, “dichiarare” o “dissotterrare l’ascia di guerra”), al Palazzo delle Esposizioni ho fatto, dopo quel breve sproloquio, una piccola performance in nome del silenzio, di quel pudore della parola di cui Calvino era maestro. In luogo di un commento, di un’opinione, ho letto qualche suo breve testo. Alcuni brani-cornice delle Città invisibili, per esempio, che ogni volta mi commuovono e divertono: Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri… (Ma non sembra in effetti che tutto il libro, l’intero repertorio delle visioni e dei viaggi che Marco Polo riferisce all’imperatore Kublai Kan, sia una grande allegoria della testimonianza, della fragilità della testimonianza, che fa del testimone un sinonimo del narratore?)

Avrei continuato leggendo l'”Avventura di un poeta” (da Gli amori difficili), breve racconto lirico e insieme realista incentrato sul silenzio, sulla fragile frontiera tra ammutolimento e poesia (come d’altronde le conversazioni tra Marco Polo e Kublai Kan, che restavano il più del tempo zitti e immobili). Purtroppo, mi fecero capire gli organizzatori, non c’era più tempo, perché “si dovevano vedere ancora i filmati”. Allora, visto che dovevo pur testimoniare qualcosa della mia presenza, ho concluso leggendo un brano amato da Calvino (a quanto mi è stato riferito) tratto dal libro L’ultimo buco nell’acqua, che ho scritto vari anni fa con Giorgio Messori. Leggere è sempre preferibile a qualsiasi discorso: non a caso ammiravo di Calvino (che era tutt’altro che un bravo parlatore, specialmente in tv) la ricerca del silenzio, il suo ostinato tentativo, contraddittorio finché si vuole, di praticarlo oltre che di narrarlo.

Come per esempio in questo brano: In un’epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l’abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto della cosa che stava per dire, la dice; se no sta zitto. Di fatto, passa settimane e mesi interi in silenzio.

“Anche a me piacerebbe leggere qualche brano di Calvino”, ha detto a un certo punto uno dei critici al secondo o terzo turno di parola, “ma ce ne manca il tempo”. E poi giù a parlare, e a controparlare, e tutti i critici insieme replicarsi di nuovo l’un l’altro per altre mezz’ore…  Credo sia stato a quel punto, incurante della minaccia dei responsabili della serata (“abbiamo tempi televisivi”, hanno detto come se si trattasse di un’enunciazione neutra, una giustificazione ragionevole e innocente, e non invece di un’affermazione grave e inquietante), è stato allora che ho alzato la mano dal nostro tavolo di relatori per intervenire una seconda volta, non per rispondere, lo giuro, non per replicare con opinioni ad altre opinioni, ma solo per leggere quel gustoso incipit del capitolo 3.2.1. di Palomar (l’ultimo romanzo di Calvino), intitolato, appunto, “Del mordersi la lingua” (e io me l’ero morsa): “Le repliche dopo i filmati!”, mi ha intimato la moderatrice di turno, con una tale voce da professoressa da farmi quasi tornare la mia paura per l’autorità.

Conosco uno scrittore svizzero-tedesco che si chiama Peter Bichsel, io lo amo molto e ne raccomando a tutti la lettura. Lui, che è uno scrittore molto riluttante, disse una volta all’inizio di una sua conferenza: “Se fossi solo uno scrittore, e nient’altro che uno scrittore, avrei dovuto rifiutarmi di venire qui a parlare. Facendolo, sono d’intralcio soprattutto a me stesso”. È vero: una delle ragioni per cui esiste la letteratura è forse proprio quella di poter tacere. Capite perché mi è venuto in mente il vecchio slogan, quello che scrissi sul muro?

(uscito sulla Gazzetta di Parma del .. .. ..1993, rubrica “Luoghi comuni”)

buco nell'acqua

Post scriptum

“Se in Italia i critici facessero il loro mestiere, non potrebbero non osservare come Fallire. Storia con fantasmi [mio nuovo romanzo, n.d.r.] sia innanzitutto un omaggio a Calvino, un tentativo di continuarne il progetto…” Confesso che ho desiderato che questa frase che ho sentito dire fosse pubblica, perché in qualche modo è vero e non ci avevo pensato. Ma se nessuno la ripete lo faccio io, come se raccontassi una storia. Di fatto è così.

In questi giorni ricorreva il trentennale della morte di Italo Calvino, e improvvisamente tantissimi lo hanno ricordato sui media. Più la società letteraria è di nicchia, più ci si muove tutti assieme come mandrie, scrivendo nello stesso tempo sugli stessi argomenti. Ma se Calvino oggi manca più di altri è perché il suo progetto, diciamolo, è stato ed è avversato dalla maggior parte di chi ha la responsabilità di prendere decisioni nell’editoria letteraria in Italia, legata a torto o a ragione a modelli “tradizionali” di narrativa. Uno dei maggiori insegnamenti di Calvino fu di inventare in ogni libro una nuova forma e il senso stesso del narrare (poiché non c’è differenza tra ciò di cui un libro parla e il modo in cui è fatto), di costruirlo e decostruirlo ogni volta di nuovo, perché la letteratura o è esperienza o non è. Tutto il contrario della tendenza oggi prevalente (ho già avuto modo di scriverlo), in cui se un libro non assomiglia ad altri venti e o trenta già usciti, se non ha precedenti riconoscibili, allora è meglio ostacolarlo, non farlo uscire. Ecco perché quella frase riportata sopra mi emoziona. Bello o brutto che sia, Fallire è il tentativo di mescolare le carte, pena la noia e la claustrofobia. Calvino era e resta agli antipodi di Moravia, ma anche di molta altra letteratura che gli è stata contemporanea.

Poiché faccio parte di quelli che parlano sempre di se stessi quando parlano d’altro – che cioè non scrivono trattati impersonali né rimuovono il fatto che si scrive e si guarda sempre soggettivamente, per cercare di compiere e trasmettere esperienze, se no si sarebbe davvero degli inutili sbruffoni – aggiungo un po’ di cose alla rinfusa.

Non ricordo se era primavera o autunno del 1993 quando andai a Roma per quella conferenza al Palazzo delle Esposizioni della serie “Un’eredità difficile”, però era poco prima che uscisse Caro diario al cinema (lo ricordo perché Nanni Moretti era in prima fila nel pubblico, poi anche nella stessa pizzeria in cui andai con gli amici, e perché il suo nuovo film mi piacque moltissimo per la sua libertà narrativa). Seppi che l’idea di invitare me, quasi uno scherzo, era stata di Daniele Del Giudice – che fu giustamente la prima scelta, ma aveva declinato l’invito. In quel periodo era uscito il mio primo libro targato Feltrinelli, Café Suisse e altri luoghi di sosta, e avevo iniziato quella rubrica sulla Gazzetta di Parma grazie al direttore di allora, Bruno Rossi, l’unico non di destra nella storia di quel giornale.  Calvino non lo incontrai mai di persona. A voce e per lettera aveva espresso apprezzamenti per il librino che Giorgio Messori e io avevamo scritto e pubblicato dieci anni prima, le prose di L’ultimo buco nell’acqua (in particolare Calvino citava un raccontino dal titolo “Confessioni di un astigmatico”), e a noi questo bastava per essere felici. Offrì un’introduzione al libro collettivo di descrizione della via Emilia coordinato da Ghirri e Celati, e molti anni prima, quando ero veramente un ragazzo e mi trovavo a Parigi per la prima volta da solo, carico di indirizzi e  numeri di telefono di scrittori francesi che amavo e mitizzavo (uno di essi era Georges Perec), avevo anche il numero e l’indirizzo di Italo Calvino: era anche lui per me uno scrittore parigino. Seppi del suo trasloco a Roma, etc. etc. Ricordo un dibattito su Se una notte d’inverno un viaggiatore che contrapponeva, assente l’autore, Alfredo Giuliani e Enzo Siciliano, etc.  etc. Posso dire questo, tranquillamente: che non so immaginare come avrei e avremmo potuto crescere e educarci, perfino respirare, in Italia, senza Italo Calvino.

calvino paris 2P.S. 2

Il mio primo libro di narrativa (con Giorgio M.) ha come titolo L’ultimo buco nell’acqua. L’ultimo (ad oggi) si chiama Fallire (Storia con fantasmi). C’è una certa coerenza, mi pare…