Oggetti smarriti

(la Repubblica…)

Sono seduto al bar con l’amico regista Giuseppe Bertolucci, e parliamo di “oggetti smarriti”, anzi, oggetti “trovati”. Gli descrivo lo storico e ormai secolare “Bureau des objet trouvés” a Parigi, al 36 di rue des Morillons, nel XV° arrondissement, impressionante e pittoresco museo della sbadataggine. Alla fine degli anni ’90 tra gli oggetti in giacenza si trovavano anche un’urna funeraria con tanto di ceneri del defunto trovata nel metrò, un teschio umano, statue di Gesù, e perfino un serpente scappato da uno zoo. Ma sono gli oggetti comuni che quello stesso anno al museo andarono davvero, quando Christian Boltanski, artista affascinato dalle identità anonime, presentò al Musée d’Art Moderne di Parigi installazioni con le migliaia di giacche, cappotti, borse e occhiali non reclamati del Bureau di rue des Morillons. Parigi è una grande città cosmopolita, nei cui circuiti e pubblici trasporti si muovono quotidianamente milioni di persone che lasciano una scia inevitabile di oggetti a rappresentarli. E in Italia? Che cosa perdono gli italiani? E cosa significa smarrire un oggetto?
Giuseppe Bertolucci ha girato nel 1979 un film che s’intitola proprio Oggetti smarriti, con Bruno Ganz e Mariangela Melato. C’era anche Laura Morante, per la prima volta sullo schermo, e la storia si svolgeva interamente alla Stazione Centrale di Milano. Lui è affascinato dalle stazioni, e il suo primissimo film, Andare e venire, si svolgeva alla stazione Trastevere a Roma, mentre negli anni ‘80 un lungometraggio documentario dal titolo Panni sporchi descriveva gli emarginati della stazione di Milano evocati in Oggetti smarriti. “Nella sua monumentalità – mi dice Bertolucci – la Stazione Centrale mi sembrava una grande scenografia dell’Aida. I suoi traffici e passaggi lo rendono il luogo dell’impermanenza, dove gli unici stanziali sono gli emarginati”. Ma il suo film, nato liberamente da un romanzo inglese di John Wayne (Un cielopiù piccolo), storia di un paleografo che decide all’improvviso di non tornare più a casa e di stabilirsi alla stazione, tra albergo diurno e sale d’aspetto, gioca con l’ambiguità del titolo. Gli oggetti smarriti sono anche i “soggetti”, gli ego individuali che perdono e si perdono, ma anche i soggetti intesi come idee e storie. Nel film è Bruno Ganz, che incontra Mariangela Melato, donna in crisi che perde compulsivamente un treno dopo l’altro. Lei che rifiuta il concetto borghese di famiglia si troverà a ricomporre, con estranei della stazione, una nuova famiglia.
A entrambi, Giuseppe Bertolucci e io, piace soprattutto l’aggettivo “smarriti”, il cui fascino letterario è irresistibile. A parte Dante, che non lo separa dalla speranza della salvezza (perduti sono solo i dannati), ci evoca le folle di Baudelaire, la flanerie e il vagabondaggio urbano, ma anche la psicanalisi. Se l’inconscio è il luogo in cui si fabbrica la rimozione, l’oggetto smarrito è molto importante. Se si considera il numero impressionante di carte d’identità che vengono perdute e ritrovate, e giacciono nei depositi degli oggetti rinvenuti, nei lost & found italiani, ci si rende conto del desiderio di fuga, evasione o cambiamento della popolazione.
Le stazioni, nella mia indagine, le ho però lasciate da parte, dico a Bertolucci, perché lì si depositano solo gli oggetti lasciati sui treni. Sono andato a Milano – città della moda, dell’industria e del design – a cercare l’equivalente di rue des Morillons. Lì l’ufficio “oggetti smarriti” si chiama “degli oggetti rinvenuti”, ma continuo a pensare che la formula più appropriata dovrebbe essere quella che, in francese, definisce il vecchio “fermoposta” – quel servizio, oggi in via di estinzione, che permette di ricevere lettere negli uffici postali di ogni città -: cioè poste en souffrance, posta che “soffre” la mancanza del proprio destinatario, lettere in giacenza, smarrite e inutili come personaggi in cerca d’autore su un pirandelliano, burocratico scaffale; e che forse, come in Kafka, sono lette e assimilate solo dai fantasmi. Ecco, le cose che ho visto, gli scaffali a parete ricolme di borse, i vestiari, le centinaia di scatole piene di buste che contengono a loro volta documenti e portafogli perduti, sembrano essere lì “in sofferenza”, e al tempo stesso specchio della disattenzione e dei costumi dei cittadini.
L’“ufficio oggetti rinvenuti” di Milano si trova in via Friuli, traversa di Corso Lodi. E’ un quartiere residenziale piuttosto scialbo, anche se a pochi passi dall’ufficio comunale lo vivacizzano gli inconfondibili graffiti colorati sui muri da archeologia industriale di un centro sociale giovanile. Anche gli stanzoni che ospitano l’ufficio erano di una fabbrica di scarpe che il Comune acquisì negli anni ’60 per farne la sede dell’economato, in coabitazione con l’ufficio vestiario dei vigili urbani e una tipografia. I soffitti sono molto alti, il pavimento è ricoperto da un linoleum rosso e gli ampi volumi intervallati da colonne, e lunghi tavoli disposti a L col piano zincato. Completano l’arredamento alcuni ventilatori a steli e vecchi armadi, su uno dei quali riconosco con un sorriso, sbiadita dal tempo, una stampa del Quarto stato di Pellizza da Volpedo. Ci sono due ingressi: quello di chi segue le indicazioni, riservata ai cittadini che depositano un oggetto “trovato”, con una specie di reception; e quello riservato ai cittadini convocati per ritirare l’oggetto “smarrito”, ma anche all’entrata quotidiana dei  professionisti del ritrovamento – addetti ai trasporti urbani, alla posta o ai grandi magazzini, e rappresentanti della polizia municipale, della polizia di stato o dei carabinieri.
In giro per le stanze, insieme al direttore, mi accompagnava Alberto, che lavora qui da vent’anni. Mi danno un po’ di cifre: in questo ufficio, che esclude appunto i ritrovamenti ferroviari, vengono effettuali circa 1500 verbali di consegna al mese, 22.000 all’anno. Una cinquantina al giorno. Nel 2005 gli oggetti repertoriati sono stati 51.827, di cui restituiti al proprietario e/o al rinvenitore (dopo dodici mesi di giacenza, secondo il codice civile chi li trova può chiederne la proprietà) sono stati la metà, 25.410. I lotti di oggetti alienati tramite asta sono stati 762, con un ricavo di 18.656 euro. Impressionante la quantità della valuta rinvenuta: 29.485 euro, di cui restituiti 18.599.
Ho assistito in presa diretta a due verbali di consegna: uno è l’appuntamento pomeridiano di un funzionario della metropolitana, che svuota sul tavolo di zinco il contenuto di un sacco. Osservo la compilazione dei moduli di consegna e la presa in carico, con guanti d’ordinanza, di borse, telefoni, una quindicina di portafogli, uno dei quali gonfio di banconote. Tutto viene repertoriato e annotato, e dà l’occasione ad Alberto di sottolineare una virtù sottovalutata dei cittadini: il 5% dei portafogli consegnati hanno soldi in contanti, e non sono pochi – senza contare il paradosso di chi porta all’ufficio soldi trovati per terra, di cui è impossibile risalire al proprietario. Ecco un aspetto, l’onestà anonima, di cui non si parla perché non fa notizia. L’altra consegna viene fatta da un tizio in giacca e cravatta che accede dall’ingresso per il pubblico: è un oggetto curioso, una carta PCM da computer accompagnata da un verbale da lui già redatto. Alcune delle mie congetture fantastiche incontrano l’assenso teorico di uno degli addetti: sì, l’ufficio oggetti rinvenuti può essere una buona strategia per imboscare qualche oggetto per un certo tempo, e poi rientrarne in possesso. Insomma, il luogo non è male per un libro poliziesco.
Prima di percorrere le stanze adibite a deposito, da un cassettino mi mostrano l’oggetto mascotte per eccellenza, in giacenza da anni e mai reclamato: un occhio di vetro che mi guarda dalla bambagia di un porta gioielli. Non è certo l’unica protesi arrivata all’ufficio, e le dentiere non si contano. Alberto mi racconta l’episodio recente di un’anziana signora che cercava ansiosamente una borsa senza documenti in cui c’era di tutto, come le tasche di Eta Beta. Quando la signora la vide la baciò felice, trovò all’interno la sua dentiera e la mise subito in bocca. Inutile dire che il suo eloquio migliorò.
Ho guardato quindi gli scaffali di ferro fino al soffitto stipati di borse e valigie di ogni tipo, ma anche altri oggetti: una chitarra, delle luci di segnalazione per cantieri, un cambiamonete, un generatore, un apparecchio elettrico che potrebbe essere qualunque cosa, anche un depilatore. Tutti gli oggetti sono contrassegnati da un cartellino azzurro e sono disposti in ordine di data. Altri scaffali, non meno impressionanti per dimensioni, contengono i documenti chiusi in buste bianche. Altre cassette contengono occhiali, da vista e da sole, e vari campionari di telefonini. C’è un vestiario che occuperebbe un negozio d’abbigliamento, una stanza di biciclette, e un’intera parete occupata da una rastrelliera a cui sono appesi mazzi di chiavi. Come nei sogni, penso, gli incubi di quando si teme di aver perso la carta d’identità, la chiave di casa, e chissà cosa vuol dire per l’analista.
Nell’elenco degli oggetti rinvenuti nel 2005 dall’ufficio di Milano si va in ordine alfabetico, dalle agende alle valigie, passando per anelli, bastoni reggipersona (stampelle), calcolatrici, cappotti, computer, guanti, indumenti, libri, ombrelli, orologi e gioielli di ogni tipo, pellicce, macchine fotografiche, dischi, quadri e dipinti, strumenti musicali, targhe e tessere varie. Perfino oggetti commestibili. Ma c’è anche una voce che dice: “oggetti diversi”. Sono gli oggetti contenuti nelle borse smarrite, e per esaminarli ne scegliamo alcune recenti dal computer. Alberto porta le borse sul tavolo del direttore e le svuotiamo. E’ come comporre ritratti di persone anonime, e capisco che gli addetti all’ufficio abbiano ormai un notevole talento nell’elaborare i “profili” e le biografie degli sbadati. La prima è una borsa di pelle marrone, contiene carte di credito e tessere sanitarie, trucchi e rossetti costosi. La seconda è uno zainetto multicolore di bambino, con Dragonball stampato sopra, e dentro caramelle, una crema dermo-emolliente, un Dvd e un Gameboy. La terza è una borsa di tela nera da donna tipo zainetto, con un pupazzetto appeso. Ci sono un passaporto intestato a una donna polacca, una spazzola per capelli, un’agendina, un deodorante, una trousse da toilette, un coltellino svizzero, un porta-occhiali da vista, un biglietto della metro con scritto dietro un numero di telefono, delle salviettine intime, un porta cipria. La quarta è un sacchetto di plastica dell’Esselunga, pieno di giocattoli poveri. E davanti a nostri occhi scorrono storie, quella di una borghese distratta, di una donna immigrata che cerca lavoro, di un bambino come tanti, del dono abbandonato da mani stanche, giocattoli di cui qualcun altro si è liberato la casa…
Sono dunque così banali gli oggetti perduti, anche a Milano? Ma siamo sicuri che tutto questo sia banale? Al telefono, il gentile direttore generale dell’ufficio “servizi al cittadino” del Comune mi aveva confidato che dal suo osservatorio c’è materia per un discreto ritratto antropologico dei cittadini: lui assiste alla loro completa biografia, dalle nascite ai decessi, passando per  traslochi, matrimoni e altre tappe certificate. L’idea è interessante, ma mi limito al catalogo delle rimozioni, delle dimenticanze.
Intanto mi accorgo che mi sono smarrito anch’io in questo racconto, soggetto e oggetto. Giuseppe Bertolucci, che oltre ad essere cineasta dirige una grande cineteca che restaura anche i film smarriti, e ha il talento dell’archivista che esplora i meandri di quell’inconscio di tutti che è il cinema, approfitta per darmi altri spunti. So che condivide col fratello Bernardo una vera passione per la psicoanalisi, ma anche per la poesia. In Res amissa, mi dice, poesia pubblicata postuma di Giorgio Caproni, il cui titolo dice le cose che si possono perdere (latino amittere), e quindi inappropriabili, come la Grazia, si parla di cose preziose custodite gelosamente, ma di cui si perde la memoria non solo del luogo in cui sono state collocate, ma perfino della natura di tali oggetti. Cose che ci siamo dimenticati di avere perduto, e che diventano resderelicta, come gli oggetti smarriti. Vorrei prendere degli appunti, ma mi accorgo turbato che ho perso la penna, e ho anche poca memoria. E’ dunque più tardi, a casa, che sfogliando l’edizione di Tutte le poesiedi Giorgio Caproni (ri)trovo questi versi dal titolo L’ignaro, esattamente una pagina dopo Res amissa: “S’illuse, recuperato / l’oggetto accuratamente perso, / d’aver fatto un acquisto. / Fu gioia d’un momento. / E rimase / turbato. / Quasi / come chi si sia a un tratto visto / spogliato d’una rendita. / (Lui, / ignaro che ogni ritrovamento / – sempre – è una perdita.)”. E, a questo punto, vorrei riscrivere questo articolo.

Beppe Sebaste