(Passeggiando tra le Barricate di Parma) (2001)
Questo non è un racconto, è la cronaca di una duplice esperienza. E’ la nuda esposizione di un metodo di lavoro, che è poi il tentativo di conoscere un luogo. Ho guardato un film documentario sull’Oltretorrente, che è la riva sinistra del Parma, e in particolare sulle “Barricate di Parma” del 1922, alternandolo a una passeggiata negli stessi luoghi – il quartiere oltretorrente, la “Parma vecchia”. Dal mio taccuino ho trascritto una parte degli appunti.
Nel film si vede l’Oltretorrente: sia in bianco e nero, nelle immagini di quegli anni, sia mentre alcuni testimoni di allora rievocano (a colori) i fatti di cinquant’anni prima. Ma anche il momento in cui parlano appartiene al passato, ovvero il presente di quel film mi appariva già “antico”: come le automobili che si vedono per strada (molte le Cinquecento), e perfino l’aria, il cielo, la grana dei colori. Mi ha fatto venire in mente quando ero ragazzo, e vedevo la realtà in technicolor. L’effetto della rimemorazione è dunque vertiginoso e pluridimensionale. Tocca la memoria, l’infanzia di quegli anziani sopravvissuti che forse oggi non esistono più; e il presente di quel duplice passato, il senso della storia che si stempera nel trascorrere del tempo. Poi i ricordi miei, e la mia passeggiata in questo mese di dicembre. “Testimonianza” è, allora, l’alterna irruenza della più potente illusione che ci sia – il presente – che sembra continuamente disperdere ciò che è stato (il giornale di oggi che domani è solo carta). Resta la memoria, sinonimo di Storia, ma soprattutto di storie: perché un luogo, si sa, è fatto anche dei racconti che fa venire in mente.
Il primo dei testimoni si chiama Orazio Bortesi. Parla dei fatti antecedenti alle Barricate, lo sciopero del 1908. Aveva sei anni, e i bambini dei poveri, dice, furono mandati via. Però si ricorda la Cavalleria, e l’impressione che gli fece vedere dei cavalli senza i cavalieri sopra: disarcionati dai coppi che cadevano loro addosso dall’alto, gli spiegò suo padre.
Otello Neva, che fu fatto portabandiera dal comandante Picelli, ricorda la formazione di veri e propri combattenti armati nei borghi dell’Oltretorrente, ma anche in Borgo del Naviglio. Furono lotte cruenti, che ricorda con la paura del suo sguardo di ragazzo. Già nel 1920-21, dice, ci furono alcune scaramucce tra fascisti e Arditi del popolo: la gente andava a vedere i segni delle pallottole sui muri. Nell’agosto del 1922 Italo Balbo, che aveva racimolato fascisti dall’Emilia, dalla Lombardia e dalla Toscana, non riuscì a penetrare i borghi di Parma, perché l’entusiasmo nato già prima era dilagato nel popolo. Virginio Barbieri descrive le barricate fatte con carretti, birocci, lastre di pietra, banchi di scuola e di chiesa, cui parteciparono tutti, uomini, donne, ragazzi, anche dei preti. Le armi erano poche e scarse, dice, più che altro fucili da caccia, “altro che fucili Novantuno”, ma i fascisti questo non lo sapevano.
Attilio Pollastri parla dell’attesa estenuante. Non venivano mai, dice, i fascisti. Si erano concentrati in Piazza Garibaldi, in via XX Settembre, in Borgo del Parmigianino, e noi cominciammo a fare le barricate, le trincee, dice. Lui era un giovanotto smanioso, era fiero di essere comandato da Guido Picelli. Eravamo in trentacinque o quaranta, dice, e i fascisti quasi ventimila. Il quarto giorno vi furono degli spari, ma ancora non venivano. Il quinto giorno suonarono le campane, e qualcuno gridò che i fascisti si erano ritirati.
Guardo le immagini delle barricate nelle strade povere e dissestate, fatte di lastre di marciapiedi, quelle di Borgo Cocconi, di Borgo Bernabei. Via Bixio, la strada più lunga parallela al torrente, di barricate ne aveva più di una, fatte di pietre e tavole. I corpi dei resistenti accovacciati nell’attesa. Altre barricate in via Imbriani, Borgo Tanzi. Sulla strada, lungo le case, bambini e donne che guardano. Si vedono le rotaie dei tram lungo via Bixio. Dante Gorreri ricorda che il partito comunista non era d’accordo con gli Arditi del popolo: erano una formazione autonoma e spontanea, fuori dal controllo. Lui aderì comunque, a nome dei giovani comunisti, e gli Arditi gli diedero un settore tra via D’Azeglio e via Imbriani. Aspettavano le decisioni, ma quando vide tutte le donne fuori e le luci accese capì che era iniziata la mobilitazione. Anche Arduino Giuberti ricorda l’ostilità del partito comunista, che non partecipò ufficialmente a quelle cinque giornate di resistenza. Ma c’era tutto il popolo dei borghi, dice. I bottegai davano da mangiare ai resistenti pane e carne. Si commuove nel dirlo. L’entusiasmo, la solidarietà di tutti, dice. E intanto guardo il bianco e nero delle facciate delle case, gli abitanti che controllano le loro barricate, uomini, donne, i bambini che giocano in strada nei momenti di calma (le vedette controllano dai tetti delle case). Ascolto le testimonianze di Giovanni Balestrieri e di Isidoro Zanichelli. Che tutti ritenevano giusto difendersi da quella gente bestiale, dice Zanichelli, i fascisti. Con altri elettricisti, aveva preparato anche un filo elettrico contro di loro. Parla della morte di Corazza, consigliere del partito popolare, cattolico, ucciso da un proiettile. Regolo Negri ne fu testimone, lo piange anche adesso, il povero Corazza. I cecchini fascisti sparavano dall’argine della Parma (il torrente, qui, si dice al femminile). Anche Corazza aveva preso il moschetto, si espose, fu fulminato. Lo sgomento di vedere l’amico ucciso da degli italiani, dice. Poi ricorda la gioia dello scampato pericolo, la fine di tutto questo. L’allegria nonostante la fame.
In via d’Azeglio c’è una pizzeria al taglio. E’ un posto come tanti, privo di memoria, “pulito e illuminato bene”. Una piccola stanza smaltata di verdazzurro, il banco con le pizze di fronte all’entrata, ai lati qualche sgabello e due ripiani con su i tovaglioli di carta e qualche avviso dal mondo: corsi di yoga, discoteche, feste in maschera, meditazione dolce, la Gazzetta di Parma sgualcita dall’uso. La signora, dall’accento del Sud, è gentile e corpulenta. La ragazza dagli occhi grandi è sicuramente sua figlia. Sono l’unico cliente, il lavoro è finito. Mi dice la madre alla cassa: faccia con comodo, aspetto l’ultimo autobus. Il forno è spento, e tuttavia intiepidisce la pizza. Di fronte al banco, appesa al soffitto, una Tv trasmette un film americano a colori. I miei occhi convergono nella traiettoria di quello delle donne, attratto anch’io dalle voci, dalla velocità sconclusionata delle scene nel silenzio tiepido di questa stanza; rapito e un po’ turbato dal contrasto del film con il basamento barocco della chiesa di fronte, lo stridio lieve degli autobus, e i passanti appena lì, oltre la soglia. E’ un film d’amore, di quelli che fanno sorridere e sognare. Gli attori sono celebri, però non li conosco. Le voci dei doppiatori invece sì, le riconosco. Nel film è estate, fuori dal vetro è inverno.
In fondo a via d’Azeglio c’è Borgo Cocconi, dove è nato Guido Picelli, che fu deputato e fondò le Guardie Rosse, poi gli Arditi del Popolo. Poi morì in Spagna. In Borgo Cocconi abitava mia zia Ines, che mi offriva il chinato in una piccola casa buia, mentre lo zio che aveva l’asma fumava di nascosto. Gli arditi del popolo non seguivano direttive di partito, e il loro scopo non era fare la rivoluzione, ma conservare e difendere quella democrazia esistente. Picelli era coraggioso, dicono tutti, un vero comandante, un condottiero. Quando veniva circondato dalle squadre di fascisti (succedeva spesso), quando era oggetto di scherno e minacce, come al Caffè Verdi, non perdeva la calma, tutt’al più si assicurava di avere la pistola nella giacca. Il Partito comunista lo ostacolò, i suoi Arditi non erano considerati puri, tanto meno affidabili e obbedienti. Alcuni, dice Regolo Negri, scrissero al segretario Bordiga per protestare.
Cammino in un tardo pomeriggio non ancora addobbato a festa. E’ la Parma Vecchia, come si dice, anche se è più nuova dell’altra. La Parma popolare, antica come gli artigiani e le osterie dove si beveva il vino nelle tazze. Nel film qualcuno dice che molti modi di dire, qui, erano legati al melodramma, come all’osteria quando si chiedeva impazientemente da bere: ”Mi fai fare la morte della Manon!” – e subito gli davano il vino. Il melodramma, dice, era il filo conduttore della città, anche per chi non aveva mai letto un libretto d’opera. Una donna parla della sua casa di allora, di come si viveva: la cucina col camino era l’unica stanza riscaldata. Fuori c’era il pozzo, dove suo padre rinfrescava l’anguria in estate. Si volevano bene tutti nel borgo, dice.
Da via d’Azeglio – la via Emilia Ovest – di fronte ai portici dell’Ospedale Vecchio che ospita ora l’Archivio di Stato (e dove nacque mio padre), supero piccoli bar e negozi, e giro nello stretto imbuto che si allarga nella via Inzani. Sembra uno square parigino, circondato da case basse e irregolari, oggi quasi tutte ben ritrutturate. Qui fu eretta una delle barricate, e adesso, sotto un paio di alberi, sulle panchine sostano immigrati, soprattutto donne: accenti rumeni, russi, slavi. Questo, come quasi tutte le piazze dell’Oltretorrente, è un porto franco di un nuovo proletariato fatto di badanti, operai, ambulanti. Le case sono belle da guardare, e quando c’è la neve sono addirittura struggenti, tutte attaccate come un villaggio da presepe. Bellezza da “cartolina”, mi viene in mente. Ma queste parole che tradiscono – cartolina, presepe – dicono altro. Dicono che è bello di quel bello addomesticato e troppo consapevole, come è destino dei vecchi quartieri. Dicono che se qualcosa di autentico ancora affiora da questi luoghi, e ci parla al cuore, allora noi non ne capiamo più la lingua, che è del resto un balbettìo, e così lo chiamiamo cartolina, oppure diciamo che sembra “finto”, come un presepe. Che poi sono le parole passepartout per dire il disagio estetico, un’amnesia anestetica come a Trastevere, come a Saint-Germain-de-Prés, come ovunque la memoria si sia omologata e quindi perduta, venduta in serie negli espositori delle tabaccherie. Eppure, grazie agli immigrati e alle donne, resta nel luogo qualche traccia di selvatico e indomito, che lo rende vivo.
Cammino nei borghi a immaginare barricate per strada. Negozi e commerci sono mutati. C’erano molti calzolai, prima, falegnami. C’era quello che faceva le sedie, quello che cambiava i vetri alle finestre, quello che affilava i coltelli. Ora, nei cortili dove una volta pestavano l’uva coi piedi per fare il vino, si leggono targhe di palestre orientali, luoghi di salute e di bellezza, laboratori del superfluo, antiquari. In via Bixio c’è ancora qualche negozio con la stufa (però moderna), fruttivendoli, negozi più umili, di arredi da bagno, nulla di lussuoso, e da qualche anno una varietà di pizzaioli e friggitorie con solo il bancone, gestiti da nordafricani e aperti fino a tardi.. Finché anche qui mi sorprende la tripla vetrina con grande targa di un Capital Money qualsiasi: una banca d’affari.
In Piazzale Rondani, che da via Bixio immette sul Lungoparma, su un altro piazzale erboso ornato di alberi, di fianco al Liceo Classico, da qualche anno c’è un monumento-memoriale alle Barricate: grandi lastre di pietra racchiuse in una cornice di legno spessa come tronchi. Tagliate in modo irregolare, mostrano già le tracce rugginose del tempo. In un italiano che sembra tradotto dal dialetto, si legge una poesia incisa sulla pietra: “Si erano vestiti dalla festa / per una vittoria impossibile / nel corso fangoso della Storia. / Stavano di vedetta armati / con vecchi fucili novantuno / a difesa della libertà conquistata / da loro per la piccola patria / tenendosi svegli nelle notti afose / dell’agosto con i cori / della nostra musica / con il vino fosco / della nostra terra. / Vincenti per qualche giorno / vincenti per tutta la vita”.
Si erano vestiti dalla festa…
Dietro la lastra di pietra coi versi di Attilio Bertolucci si ricorda che l’unica resistenza che Italo Balbo avesse incontrato nella sua marcia fu quella di Parma. E che, da quell’agosto del 1922, si trasmise da qui una “nuova memoria storica”, che attraversò il fascismo e arrivò fino a noi.
La celebre frase che apparve sui muri delle case che costeggiano il torrente, e che mio padre mi raccontò da bambino (“Balbo, hai attraversato l’Atlantico, ma non hai passato la Parma!”), è uno dei vettori epici di questa trasmissione. Per me era tutt’uno con la Piazza centrale, gremita di anziani e di adulti col cappello, al sabato e alla domenica mattina. Ricordo com’era festosa in estate, quando sotto i tavolini sgusciavo tra i piedi dei clienti a raccogliere i tappi rossi e bianchi dei Campari.
C’era una volta la memoria. Ora i vecchi col cappello e il giornale sotto il braccio non li vedo più. Sloggiati da tempo nelle periferie, sparsi in una miriade di solitudini. Sfrattati anche dai monumenti, i cui gradini preferiscono vasi di geranio o di petunie. E la memoria, dalla grana viva delle voci, si è trasferita in quel quadrato bidimensionale appeso al soffitto della pizzeria al taglio, dove stiamo a guardarlo col naso all’in su, ascoltando le voci che sembrano doppiate anche quando non lo sono. Lo guardiamo perché è comunque un racconto – io, la signora grassa, sua figlia, e un immigrato nordafricano che entra ed esce. L’unico racconto che abbiamo e ci contiene. Lo guardiamo perché comunque c’è caldo, e ci piace ascoltare delle voci. Già questo ci consola, aspettando che passi il tempo, che passi quell’ultimo autobus che ci porta via, via anche dall’Oltretorrente.
Beppe Sebaste