Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi

ariostoPubblicato esattamente un secolo prima del Don Chisciotte della Mancia, la cui follia sta nel trattare la realtà come se fosse un libro, e i libri come se fossero la realtà, eccoci qui, nel quinto centenario dell’Orlando furioso (Ferrara, 1516), a renderci conto di non avere mai smesso di attingervi. Il capolavoro di Ludovico Ariosto è senza tempo (è la definizione, credo, di “classico”) per l’universalità della rappresentazione acuta e giocosa delle passioni umane, come nessuno prima di lui aveva descritte, tranne forse, nello stesso periodo, l’amico e collega Niccolò Machiavelli, che pure ne Il Principe scandaglia l’anima umana, ma per meglio imparare a manipolarla.

Ho sempre pensato che Machiavelli, fondatore della “scienza” politica, l’arte di conquistare e mantenere il potere, avrebbe voluto essere al posto di Ariosto, e viceversa. L’uno anelava a svolgere un servizio politico attivo, essere consigliere dei Medici a Firenze, ma dovette accontentarsi della teoria, confinato nella sua casa in collina in compagnia dei vignaioli e dello studio dei classici. L’altro, che non desiderava che appartarsi in una casa di campagna con la sua amata, dove coltivare l’otium e scrivere versi, disdegnava la vita di corte e le missioni, a volte pericolose, cui l’obbligava il lavoro “politico” per gli Este a Ferrara. L’invenzione poetica di Astolfo che va sulla Luna per recuperare il senno perduto per amore dell’amico Orlando, mostra chiaramente l’idea che Ariosto ha del potere, illusorio surrogato d’immortalità. Tra i “vani disegni” e i “vani desideri” dei mortali, Astolfo calpesta sulla Luna “un monte di tumide vesciche” che, gonfie d’aria, emanano fioche grida e tumulti, e sono ciò che resta delle “corone antiche”, dei potenti regni del passato, “che già furo incliti, et or n’è quasi il nome oscuro”.

Sul piano della forma Ariosto ha inventato un’arte del suspens che anticipa le tecniche del radiodramma e del feuilleton, interrompendo sistematicamente il momento culminante delle azioni per vedere che cosa stia accadendo, “nello stesso tempo”, agli altri eroi della vicenda corale. Non è un caso che Ariosto chiamasse i suoi lettori “guardatori”, cioè spettatori.

Riepiloghiamo. L’Orlando furioso è una storia di cavalieri, cioè di cappa e spada, scritta in un’epoca in cui l’uso bellico della polvere da sparo esisteva da secoli, con archibugi e cannoni. Il disincanto è totale, eppure anche l’incanto lo è. Ambientata durante le Crociate, la scena fissa dell’azione – l’eterna guerra tra europei cristiani e saraceni musulmani – è un’immensa foresta (la “selva oscura”?) che resta tale anche quando la vicenda ci porta da Parigi in luoghi esotici e inventati all’altro capo del globo, come il regno del Catai, un po’ come secoli dopo avrebbe fatto Emilio Salgari con Sandokan, senza lasciare mai la sua Saluzzo. O come il Marco Polo immaginifico di Italo Calvino nelle Città invisibili, al cospetto dell’imperatore della Cina.

La cosa più importante è che, cristiani o musulmani, i cavalieri sono indistinguibili, accomunati dall’essere costantemente preda di un desiderio personale, una chimera che costituisce il loro asse narrativo e il senso della loro esistenza. Ognuno insegue qualcosa, un elmo, una spada, una Donna o un cavallo – al principio del poema, il primo ossimoro è proprio “un cavaliere a pié venia”, immagine che promette tutta la successiva ironia.

Come alludeva già il grande Luca Ronconi nella sua versione teatrale, dove Orlando e gli altri paladini si dondolano su cavalli di legno, la “guerra globale” è un grande teatro di burattini in cui convivono umorismo e compassione. Ci sono punti in cui Ariosto sembra anticipare Marx, quello della teoria dell’alienazione e del feticismo della merce; o, se preferite, la canzone Lost in a supermarket cantata da Joe Strummer dei Clash. Penso al secondo castello del mago Atlante, dove ogni cavaliere entra richiamato da un’allucinazione visiva o sonora, eco o barlume del proprio oggetto del desiderio (Orlando, per esempio, vede e sente le grida di aiuto di Angelica), e vi resta imprigionato come in una ragnatela mentale. Che le armi più forti siano le illusioni è la novità del “meraviglioso” ariostesco, ben oltre i mostri, i draghi e i giganti. Nel labirinto di allucinazioni e desideri che è la vita stessa, i cavalieri di ogni fronte s’incrociano senza vedersi, come attoniti clienti di un supermercato senza uscita.

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Tutto questo ritorna in mente passeggiando nella bella e ariosa mostra di Ferrara, Orlando furioso 500 anni. Oltre alla ricchezza storico-documentaria – libri, stampe, mappe, oggetti, manufatti, armi e armature – la mostra offre esempi sia dell’arte pittorica ispirata dal poema che di quella che Ariosto amava e con cui nutriva il proprio immaginario – da Paolo Uccello a Mantegna, da Dosso Dossi a Tiziano, etc.

Per esempio il disegno di Dürer che ritrae Odoberto d’Asburgo con elmo, corazza e spada, così vicino alle visioni di Ariosto che anche al lettore sembra di “riconoscerlo”. Mentre è un mito senza tempo quello emanato dal Ritratto di guerriero con scudiero detto “Gattamelata”, di Giorgio da Castelfranco, rifacimento di un dipinto dell’antico Apelle che ritrae l’amico e luogotenente di Alessandro Magno. Ma è forse Raffaello il pittore che più corrisponde ai nuovi canoni di Ariosto, e a cui lo accomuna l’incarnazione della musa, esito di un processo estetico che intorno al 1500 sostituisce con una donna reale la figura idealizzata dell’amore cortese, e la musa stessa può divenire, come fu per lui, l’amante. La Fornarina, ritratto che Raffaello dipinse nel 1518, è il corrispettivo dell’amata che Ariosto sposò segretamente, Alessandra Benucci, a cui si riferisce l’ironica invocazione alle muse nel proemio dell’Orlando furioso: quella “che vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi”.

(articolo uscito oggi,  6 ottobre 2016, su l’Unità)