Ozio e lavoro. Incontro educato col ministro dei fannulloni e della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta (2008)

Da una parte il ministro della Funzione pubblica, innovatore della Pubblica Amministrazione, già docente di Economia del Lavoro, di cui i media hanno presentato con toni sloganistici e minacciosi la battaglia contro i presunti fannulloni, cioè contro l’assenteismo e a favore di produttività ed efficienza, quasi una battaglia contro il tempo (libero perché rubato al lavoro). Dall’altra uno scrittore il cui ultimo libro, Panchine, elogio della lentezza e dell’ozio, sostiene che bisogna perderlo, il tempo, per guadagnarlo. Il primo si batte per un’equiparazione tra privato e pubblico sotto l’egida del mercato, l’altro a difesa di ciò che è pubblico e gratuito (da “grazia”), allergico anche linguisticamente alla trasformazione dei cittadini in clienti. Se si incontrassero, sarebbe un conflitto o un dialogo tra sordi, almeno stando alla vulgata giornalistica. Lo scrittore è preoccupato di difendere il suo “lavoro invisibile”, il cui “privilegio” vorrebbe estendere a chiunque. Dove comincia l’essere fannullone, e dove finisce? Mi accadrà (pensa) come allo scrittore Luciano Bianciardi, che nei primi anni Sessanta, nella Milano del boom economico, venne arrestato per strada perché “strascicava i piedi”, cioè camminava troppo lentamente? Ma anche l’economista, ora Ministro, ha scritto vari libri, uno dei quali (con Giuseppe De Rita) si chiama L’economia della manutenzione, apologia dell’investimento a lungo termine, la cura delle cose contro il degrado come fonte di benessere, ciò che i politici praticano poco perché non dà consensi immediati e spettacolari. In passato il ministro ha fatto il fotografo e il venditore ambulante di souvenir col padre, e ha dimestichezza col mondo delle storie e della letteratura. Predilige Gadda, la cui lingua ha per lui il sapore vero della tecnica e del mestiere, e le cui relazioni di ingegnere idrico sono ancora oggi esemplari, estranee alla retorica della rappresentazione (del lavoro), più prossime a quella descrizione di saperi, tecniche e mestieri che risale all’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, il grande bussiness industriale del Settecento che mobilitò centinaia di filosofi, incisori e tipografi. Su Diderot è d’accordo anche lo scrittore scioperato, e del ministro condivide l’invito alla responsabilità, la trasparenza, la meritocrazia, la creazione di “reti amiche” al servizio dei cittadini. Ma quali sono i criteri per giudicare il lavoro degli altri, pensa ricordandosi – sullo sfondo dell’Italia dei divieti e della guerra contro i poveri – l’inizio de Il Rosso e il Nero di Stendhal, dove il padre picchia il figlio perché sta leggendo un romanzo, cioè “perde tempo”, e la multa qualche giorno fa ai ragazzi di Vicenza sorpresi a leggere un libro in un parco…
Il ministro e lo scrittore si incontrano davvero, nella cornice più consona e propizia: quella piccola capitale dell’ozio creativo che è Ravello, sopra Amalfi, stratificazione di culture e bellezze diverse, greco-romana, arabo-normanna, romantici giardini all’inglese, e dove ogni anno si svolge un bellissimo Festival. Poiché lo scrittore in questione sono io, e il ministro è Renato Brunetta (la Lorella Cuccarini del governo, il più amato dagli Italiani: la battuta è sua), dico subito la sorpresa di una conversazione ricca e piacevole, solo qui e là punteggiata di reciproche incomunicabilità. Ministro, butto lì, perché non promuovere una descrizione del misterioso mondo del lavoro da parte di scrittori-esploratori che vadano “sul campo” a vedere cos’è, senza ricorrere agli esperti che sanno tutto a tavolino?
“Oggi il lavoro non è più una proiezione della persona umana, è diventato in effetti retorica, la retorica dell’artigiano, dell’imprenditore, dell’uomo che si è fatto da solo, perfino la retorica dello scrittore col moleskine” – dice il ministro Brunetta ammiccando al mio. “So quanto sia faticoso scrivere: più che ispirazione, è traspirazione. Temo però che una descrizione del lavoro non interesserebbe nessuno, perché la gente rifugge dal lavoro. Il lavoro è un luogo difficilissimo anche se fondamentale, ma o è una passione, e quindi inesprimibile (non so se Enzo Ferrari avrebbe saputo descrivere la sua passione di andare a Maranello), o è una sofferenza. Se è una sofferenza è pure difficilmente esprimibile. Oppure è una routine, e ci vai a occhi chiusi. Anche se lavoro fisico e intellettuale sono categorie obsolete – il problema è il risultato, la metodologia, la qualità, la percezione che hanno gli altri del tuo lavoro – conosco anche il lavoro fisico, che è una cosa spaventosa. Quando stai in mezzo a una strada per quattordici ore al giorno, arrivi a casa abbrutito di stanchezza, di rumori, di umanità pesante e appiccicaticcia. Oggi mi sento un privilegiato a fare un mestiere creativo che mi piace”.
Ravello presuppone per apprezzarla un’educazione, cioè tempi lunghi, un investimento sul tempo. Chiedo: non è un po’ troppo omogeneizzante la sua predicazione dell’efficacia e della produttività, come un modello culturale unico che appiattisce tutto nella rapidità?
Posto che “le rivoluzioni si fanno in tempi brevi, sono delle rotture, ed è invece la costruzione di modelli culturali che avviene in tempi lunghi”, il ministro Brunetti mi racconta il primo di una serie di apologhi narrativi. La storia del giovane figlio di sceicco che studia a Cambridge e ama i prati del College. Quando sarò sceicco, pensa, avrò dei prati così. Incoronato sceicco alla morte del padre, subito ordina al primo ministro di andare a prendere in Inghilterra i migliori giardinieri, la migliore terra, le migliori sementi e sistemi di irrigazione, tutto ciò che occorre per fare un prato davanti alla sua reggia come quello del Queen’s College. Individuato il terreno cominciano i lavori, viene il tempo della fioritura, e quando passa in rassegna i giardinieri a chiedere notizie del prato, che vorrebbe uguale a quello inglese, i giardinieri gli rispondono: ‘Sceicco, abbiamo la migliore terra, le migliori sementi, i migliori sistemi ecc., è tutto pronto, ora bisogna solo tagliare per duecento anni’. “L’apologo – continua il ministro – insegna che rispetto alla cultura il tempo è incomprimibile. Le rivoluzioni sono delle rotture, shock, un cambiare di segno, poi serve il tempo, l’investimento culturale per costruire”. E qui mi parla di un concetto di cui Brunetta va molto fiero, quella dei “beni relazionali”:
“Il nostro stare assieme è fatto di beni relazionali, in inglese network goods, beni di rete, che possono venire dall’ambiente, dalla cultura, dagli innesti, dalle leadership, ecc. Una Ferrari ha in sé una quantità di beni relazionali straordinaria, che ne fa l’azienda più bella, efficiente, pulita, performante, amichevole e di qualità che ci sia al mondo. Il suo fondatore aveva in sé questi beni relazionali e li ha trasmessi ai suoi collaboratori, ne ha fatto una cultura, un modo di vita, un valore. Vale per un ministero, per una città, per tutto. Ma così come si creano, i beni relazionali possono pure distruggersi. Basta un po’ di sabbia negli ingranaggi e si trasformano in mali relazionali – pensiamo al nostro Mezzogiorno. Perché Capri è un concentrato di beni relazionali, e a poche miglia c’è l’inferno? Perché Ravello è così? Per una serie di virtù coltivate nel tempo”.
Anche i tempi del lavoro non sono tutti uguali, dico. “E’ quello che studiavo prima di fare politica: se i ‘beni relazionali’ siano producibili in maniera artificiale, se si possa cioè investire in beni relazionali, e se si possano produrre. Un policy maker(un politico) quale io sono deve pensare che sia possibile produrli. Ritengo che Berlusconi abbia portato la sua cultura di produttore di beni relazionali a Napoli, risolvendo la faccenda monnezza. Un intellettuale descrive, percepisce; un politico cambia. E pone le condizioni di un’autoproduzione di felicità. Questa è la parte più difficile: produrre la cultura di lungo periodo. Far sì che l’amministrazione italiana sia la migliore d’Europa. Ecco i tempi lunghi. Tante aziende artigianali hanno raggiunto il top nel mondo: perché tanta cultura non può essere trasfusa nella pubblica amministrazione, che produce beni pubblici molto più importanti delle Ferrari, cioè cultura, scuola, salute, giustizia? I pubblici dipendenti sono gente potenzialmente straordinaria, capacissima”.
Mentre parliamo siamo continuamente interrotti da passanti, impiegati, insegnanti, che lo salutano e gli stringono la mano, incoraggiandolo. Mi stupisce, dico al ministro, che gli insegnanti non si sentano minacciati dalla sua campagna: il lorolavoro è il meno riducibile al criterio dell’efficienza e del mercato… “Intanto – dice Brunetta – occorre pagare bene gli insegnanti, differenziare il loro lavoro anche nel salario”. Con quali criteri? “Il tempo che si dedica, la qualità del tempo, la sua attività professionale, quanto ha pubblicato, i concorsi superati… La differenziazione è legata al mercato, cioè alla domanda, a quello che chiede la gente. Non stiamo parlando di cose astratte: se uno fa pratiche al catasto, il suo lavoro è produrre pratiche al catasto, far sì che il suo cliente sia soddisfatto di avere quella pratica nei tempi e qualità giusti. Se uno fa l’insegnante si tratta di avere una classe coesa, reattiva, ragazzi felici che studiano volentieri, che amano lo studio…”
Guardi, per far leggere e amare lo studio c’è bisogno d’insegnare non dico la noia, ma almeno il valore dell’ozio. E non credo che “la gente” possa sapere da fuori come e cosa insegnare. “C’è la letteratura, poi ci sono gli standard, coi tempi definiti dai programmi. Ma un bravo attore è libero di interpretarli come vuole. Anch’io da insegnante interpretavo con la massima libertà. Ho fatto il docente per trent’anni, il più bel periodo della mia vita […]. Quanto alla misurazione, è una cosa seria. Non si misura un brillante con un metro, certo, ma col sistema del peso, dei carati, della lucentezza, della trasparenza, della presenza di carbonio. Tutto quello che non si può misurare non si può migliorare, qualificare. Un direttore d’orchestra non si può forse misurare, dai dischi, dal successo che ha?”
Ministro, ma il successo non si giudica, lo si constata, non è un giudizio di valore né di qualità…
“Non ho detto questo. Ho detto che tutto quello che non si può misurare, non si può migliorare. Io amo migliorare le cose – un paesaggio, una società, l’efficienza di una burocrazia, la capacità frenante di un freno – e per far questo devo misurare. La nostra vita è fatta di misurazioni fin dalla nascita, e per tutto il ciclo di vita, a scuola, nello sport, nell’affettività. L’educazione è legata alla misura, che non deve essere costrittiva, ma funzionale alla tua libertà di espressione. La misura di un professore non deve essere legata alla sua costrizione, ma alla sua potenzialità di esprimere il meglio di sé”.
Continua il ministro: “Bisogna portare i ragazzi fuori dalla scuola, far loro capire come funzionano i sistemi complessi. Amo molto i sistemi educativi di Legambiente, che portano fuori i giovani a pulire, raccogliere  rifiuti, anche solo il pezzo di carta per terra. Anche spiegare che si parla a bassa voce, insegnare che la vita comunitaria si basa sul rispetto, fare lezioni sui beni relazionali, che è poi educazione civica non formale, ma concreta sul vivere insieme, anche tra etnie diverse, e insegnare a capire le lingue, i cibi, le usanze, le danze di quelli diversi da noi, insegnare che la diversità è alla base della vita, diversità biologica, culturale, sociale, emotiva.”
Ministro, torniamo all’inizio: dove comincia l’essere fannulloni?
“Ci sono molti criteri. Intanto tu hai un contratto di lavoro, e lo devi rispettare. Questa  la base. Chi non lo rispetta con comportamenti opportunistici, comincia a essere un fannullone, per non dire altro. Se uno sta a casa malato e non è malato, se in ufficio dorme o sta facendo altro invece di lavorare, non ottempera al suo obbligo, che è contrattuale ma anche morale. Il fannullonismo è una categoria cultural-sociologica per spiegare tutto questo, e se tu ti dai anche una giustificazione ideologica di questo, se spieghi che non fai quello che dovresti fare perché sei contro lo Stato, o il capitalismo, o qualcosa, o per qualunque altra giustificazione filosofeggiante, sei un fannullone ideologico, che è peggio. Sono presenti in tutti i mestieri i fannulloni, ma nel settore privato vengono stanati immediatamente. Nelle organizzazioni deresponsabilizzate, come sono oggi quelle pubbliche, può invece nascondersi e fare una comunità ideologica – vedi il Cofo, Comitato Fannulloni Operosi, interessante perché è una contraddizione in termini. O come la presa di posizione di Ferrero di Rifondazione comunista, che ha fatto della difesa dei “fannulloni” un cavallo di battaglia, per me un elemento di grande chiarezza: un pezzo della sinistra estrema che si fa difensore dell’antilavoro, interpretando male Marx. Io sto dalla parte dei lavoratori e dei cittadini. La vera lotta di classe dei nostri tempi non è tra capitale e lavoro, ma tra buon capitale e buon lavoro contro la cattiva burocrazia parassitaria.”
C’è una tradizione filosofica – dico –  per la quale provo molta simpatia, che ha sviluppato proprio un pensiero dell’ozio…
“No, dell’antilavoro, non dell’ozio, l’ozio è una cosa nobile…”
Appunto, pensavo al genero di Marx, Jules Lafargue, autore dell’Elogio dell’ozio. Ma a dire il vero pensavo anche al nostro Petrarca, al suo ozio contrapposto al neg-ozio…
“Da settembre – continua il ministro – farò l’illuminatore. Voglio illuminare tutte le eccellenze nel settore pubblico. Andrò in giro per l’Italia a illuminare. Là dove c’è un magistrato come quello di Bolzano (Cuno Tarfusser), se ce ne fossero cento come lui in Italia avremmo risolto il problema della giustizia. Bisogna dare coraggio a tanti come lui, le luci, in tutti i settori, dalla scuola all’ufficio del catasto, quello delle imposte, i Comuni…  Farò emergere tutte le luci, e ce ne sono migliaia. Premierò le luci che oggi sono nell’indifferenza e nel silenzio generali. Dopo il bastone, le luci e la carota. Pubblicherò i nomi nel mio sito, e farò il nuovo contratto. Sarà un’operazione bipartisan, e chiederò la collaborazione del sindacato”.
Lei ha detto che nell’amministrazione pubblica ci sono costi, ma non ci sono prezzi. Cosa significa esattamente?
“Nella produzione dei beni pubblici normalmente ci sono costi – per esempio un faro: ma qual è il prezzo di un faro? Chi usa un faro, paga? Chi in mare usa la luce del faro elettronico paga? No. Il faro è un bene pubblico, e i beni pubblici hanno costi ma non hanno i prezzi che governano la domanda e l’offerta. Caviale e champagne hanno costi e prezzi, che servono a governare la domanda e l’offerta. Mentre una Ferrari ti esclude per il prezzo troppo alto, i beni pubblici, come le panchine, non possono per definizione escludere nessuno dal fruirne. Ma non avendo un prezzo non hanno i segnali del mercato che giudicano quanto un prezzo è troppo alto o troppo basso, e della qualità della Ferrari. Come si fa a giudicare un bene pubblico, che non ha un prezzo ma ha un costo? Normalmente vengono giudicati dalla politica, cioè dal cittadino che ogni cinque anni è chiamato a giudicare i policy maker che hanno organizzato la produzione di quel bene pubblico. E’ il cittadino elettore che giudica. E’ sufficiente il cittadino elettore per determinare la qualità o la quantità del bene pubblico? Io dico di no. Perché il cittadino elettore spesso viene fuorviato da altre valutazioni, spesso di tipo ideologico. E’ il caso emblematico di Napoli e la Campania: Bassolino fu eletto a furor di popolo, ma il disastro lo aveva già combinato. Il cittadino elettore spesso è strabico. Magari soffre perché il bene pubblico che quella politica gli offre non è buono, ma l’ideologia lo porta a votare a sinistra, oppure a destra. Non basta il cittadino elettore, ma occorre anche il cittadino consumatore a giudicare il bene pubblico. Ma come fa a giudicare se non c’è un prezzo? Per questo a gennaio entrerà in vigore la class action anche per il settore pubblico: cioè, il cittadino consumatore di beni pubblici avrà in mano un’azione, individuale e collettiva, per sanzionare immediatamente il produttore – il politico, il manager – se gli viene fornito un bene pubblico non di qualità, o non tempestivamente, ecc. Questa che sto introducendo è una piccola rivoluzione. Potrai rimanere democristiano, comunista o ciò che vuoi come cittadino elettore, ma come cittadino consumatore potrai prescindere dall’appartenenza politica e sanzionare chi non ti dà la Tac nei tempi giusti o altre inadempienze. Certo, potrai anche giudicare politicamente chi ha messo i dirigenti sbagliati…”.
Ci sono cose che hanno valore ma non hanno prezzo?
“Sì, certo. Un esempio concreto: sono un amante di tappeti antichi bucati. Non ho il reddito per avere dei tappeti antichi perfetti, ma ho scoperto una sorta di collasso logico dell’economia. I venditori di tappeti per ricchi, perfetti, ne riprendono da clienti alcuni bucati, la cui riparazione costa tantissimo, senza che il valore aumenti come tappeto antico riparato. Il valore è inferiore al costo della riparazione. Insomma, il tappeto antico bucato non ha quasi alcun valore, o meglio, non ha prezzo. Ma un amante del tappeto antico che se lo compra per poche centinaia di euro realizza un grande valore senza prezzo, realizza un grande valore senza prezzo. E’ un collasso delle regole del mercato. Il discorso è diverso per i beni pubblici. La salute, la cultura, l’educazione, la storia sono beni pubblici che hanno un costo e non hanno prezzo di mercato anche se sono investimenti. Il concerto a Ravello di Barenboim è senz’altro cultura, ma ha un costo spaventoso. Si dovrebbe diluire il costo su una platea di fruitori molto più ampia. In tutta la sua vita Mozart avrà fatto ascoltare le sue opere a un massimo di 500.000 persone. Con i mezzi attuali, un cd di Mozart viene ascoltato da 500 milioni di persone. La tecnologia aumenta la platea dei fruitori, e assorbe i costi. Un’orchestra, un’opera lirica, ha prezzi incredibili, che comportano un intervento dello Stato. Ma lo Stato deve intervenire sempre comunque? Certamente ha un valore, ma chi la deve pagare? Tutti i cittadini, o solo quelli che la fruiscono?”
Un’ultima domanda. Ma quanto lavorano gli Italiani?
   “Gli Italiani lavorano moltissimo, sopratutto però in forma non ufficiale Hanno orari di lavoro ufficiali non molto alti, sia nel privato che nel pubblico, ma nei fatti la quantità di lavoro che viene espressa dal sistema Italia è molto alta. Il che vuol dire che una quota rilevante, taluni dicono il 30 o 40%  è sommersa. E’ su questa sommersione che basiamo di fatto il nostro benessere. E’ il paradosso sociale e culturale, ma anche l’ipocrisia, del nostro Paese: l’Italia non è un paese di fannulloni, ma di iperlavoratori. Dove l’inefficienza della burocrazia viene compensata dall’efficienza delle burocrazie parallele che risalgono al nostro stato borbonico – gli ordini professionali – e quindi i cittadini pagano due volte. Inoltre molti lavoratori hanno due redditi. Ma questa organizzazione sociale e culturale, nell’Europa della moneta unica, non è più funzionante come nel passato”.
Che cosa potrebbe aiutare a diminuire il divario tra le vocazioni e le professioni?
“E’ il problema del matching, l’incastro tra formazione e lavoro, che non sempre avviene. Poi si ha il matching con le proprie aspirazioni, che  richiede, dicono gli inglesi, un fine tuning, una sintonizzazione (come alla radio), cioè un’altissima conoscenza organizzativa. Un grande capo del personale sa individuare i talenti e collocarli nelle funzioni ottimali: Enzo Ferrari probabilmente era questo, o Adriano Olivetti, tutti ottimi sintonizzatori dei loro dipendenti rispetto alle funzioni”.
I suoi esempi positivi sono tutti imprenditori. Ma il policy maker e i manager, chi li educa? Chi educa il capo del personale, chi educa gli educatori?
“E’ il punto fondamentale. Chi ce l’ha dentro di sé, come leadership, sa cosa vuol dire avere una squadra alle spalle. E’ un fatto fondamentale: e non c’è differenza tra il pubblico e il privato. Le cose più folli si fanno per passione, non per denaro. Certo, ci vuole il denaro sufficiente per vivere. Ma la passione che si mette nei propri hobby spesso non la si mette nel lavoro. Per i più fortunati l’hobby e il lavoro coincidono. Le racconto un’altra storia, di quando venni invitato a dibattere alla Festa dell’Unità di Modena con l’amico Nicola Rossi. Poiché non guido mi mandarono un autista, un signore cinquantenne con un’Alfa Romeo di media cilindrata. Era un comunista doc, innamorato della Ferrari, di cui era un fornitore, e del proprio lavoro, una piccola azienda artigianale innovativa. Parlando della Ferrari gli si inumidivano gli occhi. Per lui era tutto, la sua cultura, ed era un onore esserne fornitore. Alla fine di quel viaggio ci siamo abbracciati. Chi è più felice di quell’uomo? Ha messo insieme passione, lavoro, stile di vita e ideologia, perché una parte del proprio tempo la impiegava a fare l’autista per la festa dell’Unità. Se si riuscisse a trasferire su tutto il mondo del lavoro questo approccio!”
(uscito su Venerdì di Repubblica del 29 agosto 2008)

Beppe Sebaste